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Modì, il secondo disco

Al secondo LP, dopo All’una e trentacinque circa dello scorso anno, Vinicio Capossela dimostra di aver la testa dura e le idee chiare. Assediato da sospetti critici e fantasmi di una musica già nota (Paolo Conte, Guccini, Tom Waits e un certo filone di “canzone notturna e maledetta”), si scrolla tutto di dosso e con fare deciso e testardo tira dritto per la sua strada: la sua musica è questa, oh!, e verrà il giorno (presto, c’è da scommettere) in cui Vinicio Capossela sarà giudicato ed ascoltato solo come Vinicio Capossela!

Per adesso c’è un album, Modì, un po’ selvatico ma anche dolce, bizzoso, profumato di sogni e di musiche immaginarie. Geograficamente è situato tra l’Emilia dell’adolescenza, l’America delle fantasie e uno struggente Sudamerica che è gioia di vivere e piccola malinconia: musicalmente è appeso alla umile grazia di certi timbri popolari (la chitarra, il bandoneon) e al fuoco, alla lava di un certo soul jazz di saxofoni e Hammond. Capossela governa questo mondo insolito con l’abilità di un veterano, aiutato dalla bella mano di musicisti noti come Ares Tavolazzi, Ellade Bandini, Antonio Marangolo, “Flaco” Biondini. E’ così ispirato e sicuro di sé che lascia navigare la musica alla deriva dell’umore: ubriaco di malinconia in Solo per me, caldo di passione in Pasionaria, capriccioso fino alla malizia nei gorghi paroliberi di Notte newyorkese, acuto e quasi distaccato nel poetico ritratto di Ultimo amore. Le diverse pieghe dello spirito condizionano la voce, che ogni tanto si apre limpidamente mentre altre volte ripiega su di sé, masticando parole al riparo di tutti.

Modì ha una dote rara nel mondo discografico di oggi: è un disco vero e spontaneo, non omogeneizzato, non da ambiente asettico. Contiene musica sporca di vita, canzoni da intonare in coro, ballate di strada, filastrocche pazze: ascoltate Notte newyorkese o …E allora mambo e scoprirete che è nato uno stile e magari anche una lingua – il “caposseliano”, chiamiamolo così.

 

So solo che lo chiamano Vinicio...

L'aria era fredda e il vento arrossava le guance dei passanti, la penombra era già calata sulla città. Avvolto nel mio impermeabile blu, cercavo un rifugio per riscaldare i miei pensieri.
Una luce al neon, violacea, mi segnalò la presenza di un locale: entrai. L'appannamento delle lenti fu immediato e mi colse, come al solito, impreparato. Mentre sorridevo al barman, pulendo con frenesia gli occhiali, percepii una musica suadente che proveniva dal fondo della sala. Una piccola band si esibiva davanti a un pubblico attento e caloroso.
Ordinai da bere mentre il pianista - uomo? Ragazzo? Il buio della sala e la mia miopia non mi permettevano di identificarlo - presentava il brano successivo. Distrattamente, tenendo tra le mani il bicchiere, mi lasciavo cullare dalle parole delle canzoni. Una parlava del Natale con l'amarezza di un giovane insoddisfatto:

 

I ragazzi stanno urlando / e i flipper tintinnando / sono solo qui a guardarli in uno spruzzo di ricordi.

 

Questi versi mi colpirono particolarmente, portai il bicchiere alle labbra e mi scrollai via un po' di freddo, mentre il pianista curvo sulla tastiera raccontava le sue emozioni. A questo punto, dimentico del bicchiere posato sul bancone del bar, mi accorsi dell'attenzione con la quale il pubblico assisteva all'esibizione della band; era totalmente assente il solito brusio di fondo, il chiacchericcio sommesso degli amici che si incontrano, il rumore dei bicchieri. Anche le ragazze che servivano ai tavoli si muovevano, attente a non disturbare. 

 

Sotto un cielo di nebbia / che cielo non è / è un altro giorno insicuro / che io passo con te...

 


L'uomo - il ragazzo? - aveva stoffa da vendere. La narrazione di una giornata qualunque (un sabato?) di una coppia qualunque tra lampioni e vetrine / tra prezzi di scarpe / lampioni e cucine era un piccolo capolavoro. Anche le coppie di ragazzi seduti vicino al palco si riconobbero in questo paesaggio descritto dal pianista. Il freddo era ormai un ricordo e il merito non andava esclusivamente al liquido che avevo da poco bevuto, era quel pianista curvo sulla tastiera che mi regalava calde emozioni.

Lo osservavo attentamente avvitarsi contro il microfono mentre raccontava le sue storie ora allegre, ricche di bevute, di donne e di automobili nella notte, ora malinconiche sul lento fluire del tempo.
La geografia fantastica del musicista abbracciava un mondo sconfinato, dalle spiagge dell'Adriatico alle "notti newyorkesi", tra ritratti di provincia italiana e storie d'amore parigine. La memoria ritorna a Louis Prima e al dimenticato Fred Buscaglione quando il pianosta interpreta con lo stile scanzonato i brani ad alto tasso alcolico arricchiti da signorine vivaci. Ma è sufficiente al musicista premere il pedale dei sentimenti perché l'attenzione ritorni emotivamente palpabile. 
Il ritratto umano di Amedeo Modigliani, descritto nel brano Modì, è un altro gioiello musicale. 
Ma il clou della serata stava per arrivare. Abbandonato il pianoforte, con l'accompagnamento di due chitarre e della fisarmonica, il ragazzo (sì, ragazzo) interpreta un lungo brano dal prologo solare. I profumi messicani non distraggano, come nei libri di Cornell Woolrich, la coppia di amanti è destinata a un tragico finale. Lei incapace di dimenticare un amore passato e lui inerto nel regalarle il suo amore. Il concerto volge al termine: ripenso alla facilità con la quale questo ragazzo ha saputo colpire la sensibilità dei presenti. Ero entrato nel locale per perdermi nei miei pensieri e ne uscivo felicemente turbato.

Prima di andarmene, chiesi al barman il nome del musicista. «So solo che lo chiamano Vinicio» rispose distrattamente mentre avvitava il tappo di una bottiglia. Fuori l'aria era ancora fredda, ma il vento aveva cessato di soffiare. Chiuso nel mio impermeabile blu mi sentii meno solo e canticchiando il ritornello spagnoleggiante di La regina del Florida cercai disperatamente, per strada, un barattolo o una bottiglia da prendere a calci.

 

Guido Giazzi