Questo sito usa cookie di analytics per raccogliere dati in forma aggregata e cookie di terze parti per migliorare l'esperienza utente.
Leggi l'Informativa Privacy completa.

Elettra Mallaby
2007

Rime e lamentazioni per Michelangelo

Fuggite, amanti, amor: rime e lamentazioni per Michelangelo

Le rovine in questi versi giungono a noi come le rovine semi-interrate, i capitelli, i torsi, i busti, arti di pietra nella terra, come nel macello dei corvi l’antichità emergeva mezza interrata, così i versi, un poco comprensibili e un po’ no, interrati in un grande spirito.

Di tutti i versi in poesia, le Rime, proprio per il fatto che vengono da Michelangelo, possono risuonare, avere una fisicità, un corpo anche musicale, che altrimenti sarebbe inutile. Io personalmente non riesco nemmeno a immaginare un'operazione simile su Dante o Petrarca, forse perché nella pietra c’è stridore e suono, perché arrivano dal retro di cartoni imbrattati di colore, e di polvere fatta colore. C’è qualcosa di plastico, di materico in questa poesia, e per questo se ne può fare materia corporea. È come mangiare polvere e colore, perciò se ne ricava musica per strumenti da tensione, che devono estrarre “cavandolo” con l’arco il suono dal legno, nella forza del violoncello e nella grazia straziata e dolente della viola.

 

Sono strumenti, questi, che hanno teste di polena, come le imbarcazioni lignee, per fendere l’ignoto, il grande oceano del nostro animo; e questi versi, portati da queste prue, si fanno largo lì dentro, a volte duri come pietre, oppure legati imbrigliati in quella grande, terrificante camicia di Nasso della nostra passione, che ci avvolge con le spire del desiderio e ci brucia, ardendo la pelle, “ghiaccio ardendo in lei"...

Con questi versi ci addentriamo nell’insanabilità del desiderio amoroso, nella sua terribilità, che anelando all’unione porta alla conoscenza della separazione: non si è mai così soli come da innamorati. La nostra individualità non ci fa mai così male come nella tensione, nell’anelito all’unione.

 

Se è vera la speranza che mi dai / se vero è il gran desio che mi è concesso / rompasi il mur tra l’una e l’altro messo

 

Rompere questo muro e inoltre che cosa è questo amore, che al core entra per gli occhi a mezzo della beltà, chi mi difenderà dal tuo bel volto? I miei ripari son corti e folli, verso questo male ch’io bramo e volli...

Questa poesia è carne viva, per me, non ancora sanata né dai secoli in cui è riposta, né dal placarsi della vita. La ferita che la bellezza apre è sempre e ancora ferita viva, desiderio della bellezza e insanabilità. Tutto questo sta nel verso che personalmente sento più vicino

 

Chi mira alta beltà con si gran duolo / ne ritrà doglie e pene acerbe e certe

 

In questa poesia non ci sono visioni gotiche, tenebrose o romantiche: c’è il corpo a corpo affrontato a viso scoperto, un uomo che è elevato e ucciso dalla bellezza, un uomo a cui la bellezza ha dato il genio non di raffigurarla, ma di crearla addirittura - e a cui la sua natura non ha saputo mettere riparo.

Se cerco altrove per mettermi a riparo dalla beltà nemica, ecco quella raddoppia il suo corso fino a darmi la morte. Per questo il titolo Fuggite amanti amor, perché questo lavoro non riguarda tutta la poetica delle Rime, che sono così musicali da recare indicazioni quali madrigale, stanze, frottole e altre singolari indicazioni di forma, non la poetica di Michelangelo, ma questo aspetto specifico: il desiderio, la bellezza, la ferita aperta dalla bellezza e quindi il lamento.

 

Il lamento è l’unico lenitivo, anzi, l’unica conseguenza di questo stato, e il lamentarsi non cura, ma anzi estingue in una voluttà di morte, come il roveto ardente. Ecco, il lamento estingue, e forse in questo bruciare al fuoco c’è anche una sorta di misticismo, di sacrificio, di croce tutta pagana, in nome cioè del corpo, e della bellezza. Il divino è forse questo essere a immagine e somiglianza, dunque il divino è in noi, nel volto amato, nel corpo amato, e produce l’estasi della croce. Non so.

Quel che è certo è che riempirsi la bocca di questa bellezza, messa alla brace della passione, urlante come un Savonarola al rogo è un'emozione che la vita inizia a regalare quando il nostro animo la può comprendere, altrimenti sono parole fatte di marmo, dunque a ognuno bruceranno a seconda della stato dell’animo suo. Ma il lamento, questo melismo affidato alla rotta del nostro animo, alla consunzione del nostro cuore, ecco, il lamento è il nostro reclamare Dio, il nostro morir dolce. E dunque con questi lamenti vogliamo fare ancora bruciare quel roveto ardente che non può divenire mai cenere.

 

Maggio 2007

Vinicio Capossela

 

Tre brani eseguiti durante questi concerti sono inclusi nell'album del 2001 del musicista francese Philippe Eidel intitolato Renaissance: Fuggite, Altra figura, Tu sai ch'io so. 

Programma dell'esibizione.

14 maggio 2007: Rime e lamentazioni per Michelangelo

Alcune immagini del concerto tenutosi alla Tribuna del David. 

14 maggio 2007: Rime e lamentazioni per Michelangelo

- 00:00:00

Il 14 maggio 2007, Vinicio Capossela - accompagnato da Mario Brunello, Paolo Pandolfo, Christoph Urbanetz, Sergio Albanes e Vincenzo Vasi - si esibisce in «Fuggite amanti amor. Rime e lamentazioni per Michelangelo» presso la Tribuna del David all'interno della Galleria dell'Accademia a Firenze. 

 

Scaletta:

 

I TEMPO

Fuggite amanti amor
Altra figura
Ogni van chiuso

II TEMPO
Lamentazione
Metamorphosis
Il lamento della Ninfa

 

Furono eseguiti anche altri brani che sono, ad ora, inediti. 

Prove a Villa Demidoff (Firenze)

Alcune immagini delle prove dello spettacolo. Con la partecipazione dello scrittore Sandro Veronesi.

Le date

L'esibizione «Fuggite amanti amor. Rime e lamentazioni per Michelangelo» non è stata un atto unico a Firenze, ma ha conosciuto alcune repliche nel 2007 e nel 2008: 

 

14 maggio / Firenze / Galleria dell'Accademia

15 maggio / Firenze / Chiesa di S. Stefano

7 giugno / Roma / Auditorium Santa Cecilia

22 settembre / Milano / Teatro degli Arcimboldi

22 ottobre / Pordenone / Teatro Verdi

 

11 febbraio 2008 / Torino / Teatro Regio

Non moriranno mai

Colui che scrisse queste lamentazioni, e che lo fece talvolta in cima all'impalcatura, concio di tinta e di fatica, nelle pause della pittura a fresco del, poniamo, Giudizio Universale, o del furente smartellamento della Notte, tutto imbiancato nelle polveri del marmo, egli non morirà mai.

Ma anche colui che le lesse, mezzo millennio dopo, e se ne innamorò - come tutti, verrebbe da dire, ma non è vero, non è così, non tutti se ne innamorano, addirittura non tutti le lessero - e leggendole e amandole vi scoperchiò la musica, laddove perfino Giovanni Testori sosteneva che musica non ci fosse, colui che questa musica invece strappò nota a nota dalle tetre spelonche che la custodivano, colui che la liberò, dunque, e la fece vibrare nella festa anarchica della sua voce, anch'egli non morirà mai.

E anche colui che questa musica riportò subito indietro di quattrocento anni, nella vecchiezza del suo violoncello suonato senza paro, anch'egli non morirà mai. E coloro, fortunati, che assistettero al prodigio tutto italiano che sortì da tale poderosa comunione, tanto nel suo farsi, alle prove, un lunedì pomeriggio, tra i daini, trascurando per qualche ora l'agonia della propria madre, quanto al concerto, in Firenze e in Roma e in qualunque altro luogo esso prodigio fu poi replicato, essi pure, infine, e ulteriormente, e perciò stesso, non moriranno mai. 

 

Sandro Veronesi