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Ricucire il cuore nella Grazia

Questi tredici brani, scritti fra Febbraio e Giugno 2022, sono stati composti tutti insieme, generati da un sentimento di urgenza nata dal pericolo e insieme dalla necessità di opporvi una reazione in affermazione della vita.

Sono diretta conseguenza del momento storico che stiamo vivendo, momento che faccio partire dall’osceno plauso in Senato alla bocciatura del progetto di legge contro i reati di odio e discriminazione razziale (ottobre 2021). Momento storico in cui diritti costantemente elusi, ma permanenti nella loro urgenza di soluzione, dallo ius soli al diritto di scegliere il fine vita, rimangono privi di un riconoscimento.

Sono problemi stringenti, il cui violento epilogo si prepara in una cultura tossica nella quale maturano la violenza di genere, l’abbandono della scuola, la cultura usata come mezzo di separazione sociale, la cattiva educazione alla gestione delle emozioni, la delega all’intrattenimento digitale in cui versa l’infanzia. E poi la situazione emergenziale delle carceri, lo stato di minorità in cui versiamo, massimamente rappresentato dalla reclusione senza riabilitazione. E ancora, i nuovi modelli predatori di consumo sintetizzati nella formula all you can eat.

L'affermazione dei populismi, del neo liberismo, del post fascismo, il cortocircuito del sistema dei valori etici. Un campionario di mali che abbiamo quotidianamente davanti ai nostri occhi ma che – schiacciati dall’incessante berciare della società dello spettacolo (che è sempre più la società dell’algoritmo) – affrontiamo ciascuno chiuso nel proprio guscio, indifferenti, spesso appiattendoci su facili posizioni da tifosi più che da cittadini.

Su tutto questo mondo giacente supino sul divano occidentale, un mondo ripetitivo e immobile in cui ogni cosa è stata domiciliarizzata, si è andata abbattendo la peggiore delle catastrofi: la guerra, con tutto il corollario di avvelenamento, di semplificazione, di inflazione, di vanificazione di ogni sforzo “culturale”. Se Brecht poteva dire che «dato che i posti buoni erano occupati, ci siamo seduti dalla parte del torto», oggi il torto non è più appannaggio delle forze che lottano per la libertà. La parte del torto, orgogliosamente rivendicata ora da destra, è quella in cui ci siamo messi tutti, in una lotta di mera contrapposizione che vanifica e neutralizza il concetto stesso di “parte del giusto”.

La guerra di oggi richiama all’appello i valori di quanti l’hanno combattuta, esempi di resistenza come le staffette partigiane, la componente femminile, il lato umano della resistenza.

La guerra che ci fa tornare a lucidi decodificatori della Storia come Bertolt Brecht. O addirittura all’opera di Lodovico Ariosto, che individua l’inizio di nuove più terribili forme di devastazioni nella rivoluzione operata dalla invenzione delle armi da fuoco, che secoli più tardi porteranno agli ordigni di distruzione di massa. E che ponendo il senno sulla luna denuncia la follia di cui è caduta preda la terra.

Viviamo in una condizione di costante crisi, parola che contiene la parola Scelta. Restringere le possibilità vuol dire abituarsi a fare con quello che si ha, a scegliere che valore dare alle cose, a stabilire quali sono i nostri “beni rifugio”.

Nella convinzione che le sole cose che contano sono quelle che non hanno prezzo, quelle che vengono donate, quelle che ci permettono, guardando al corso delle nostre vite, di comprendere quale è stato il nostro “tempo dei regali”, auspicando che altri regali verranno ancora, perché è solo la crepa che permette di ricucire il cuore nella Grazia.

 

Vinicio Capossela

Traccia per traccia

Il bene rifugio

L’insicurezza e la paura, nodo scorsoio che accompagna ogni crisi e particolarmente quella legata alla guerra, fanno impennare i prezzi. L’inflazione, la svalutazione, l’incertezza fanno salire i valori dei cosiddetti “beni rifugio”, tutti legati al mondo della finanza, delle materie prime o del lusso. Lo scrittore francese Ferdinand Céline, in fuga dalla guerra, mentre tutto va a fuoco, dopo avere perso tutto mostra il certificato che lo lega a Lucette, sua moglie, come unico documento ancora valido, come sola lettera di credito che abbia ancora un valore.

Quando il paniere dei beni si restringe dobbiamo scegliere a cosa dare valore. L’amore non è soltanto un rifugio, ma è anche rivoluzione. Trasformare la fragilità in forza al fine di potere godere, come nell’episodio dell’Iliade, di una tenda in cui rifugiarsi, tenuta in piedi dalla forza dell’unione, all’interno della quale la guerra non è penetrata.

 

All you can eat

Ci si guarda intorno e ci si accorge che intorno a noi spariscono edicole, librerie, circoli, negozi storici, e intanto crescono mall e ristorazioni all you can eat. In questa formula c’è molto del modello di produzione e consumo che sta asfissiando il pianeta. Molta della ingordigia, del consumare per consumare, ci mostra un modello che diviene anche modello di consumo della socialità. Le piazze affollate in mareggiata di spritz sottocosto, lo spreco, il cibo industriale, i muri di sacchi di spazzatura, sono i segnali visibili di fine filiera del modello alimentare che sta disseccando il pianeta.

Di fronte a un mondo in cui siamo ridotti a irrilevanza illusoriamente partecipata, viene da chiedersi che senso abbia ancora studiare, impegnarsi in quel lavoro sulla costruzione della Speranza enunciato da Ernst Bloch nel suo “Principio speranza”, o se non sia il caso di rinunciare e sfondarsi di cibo con tutti gli altri, fino a diventare deambulanti gastrolatridigerenti, per usare un neologismo che recupera la formula dispregiativa gaster (stomaco) che i Greci antichi usavano in contrapposizione ad antropos (il guardante in alto, l’uomo).

Gastrolatri di cibo spazzatura o da “Masterchef” che sia, ora che il cibo pare essere diventato l’unico mezzo ed oggetto di socialità.

 

La parte del torto

Negli anni Trenta del secolo scorso, Brecht poteva affermare con sicurezza che i posti buoni erano quelli dei ricchi che detengono capitale e potere, e che la parte del torto era quella di chi doveva lottare per la giustizia e la libertà per sovvertire il sistema borghese; oggi, quando la presidente di FdI, erede di quella estrema destra contro la quale si era levata la lotta di Brecht, pronuncia quelle stesse parole per affermare con orgoglio che il suo partito sarà l’unico a non entrare nel cosiddetto Governo dei migliori di Mario Draghi, si va realizzando un cortocircuito valoriale, in cui non esiste più destra o sinistra.

Per molti anni, essere dalla parte del torto è stata la bandiera identitaria di una certa idea di sinistra, ma quella sinistra, cedendo il ruolo di difesa del mondo del lavoro, dei senza diritti e degli ultimi che le sarebbe stato proprio, ha lasciato libero il campo a forze che assieme all’elettorato popolare si sono prese anche la parte del torto. Forze che fomentando la paura dell’altro, hanno portato a una deriva in cui il torto è torto contro il senso di umanità. Legittimare il basso istinto, la legge del più forte, il razzismo e ogni forma di discriminazione nel nome della maggioranza e della nazione è schema antico che porta a società in cui il torto è realizzato non in forma di contrapposizione ideologica, ma in opposizione al concetto di giustizia.

 

Staffette in bicicletta

Su un muro di cemento lungo la pista ciclabile di Scandiano (Re) nella biciclettata del 25 aprile scorso ho visto dipinti una trentina di nomi di donne. Nomi che oggi non si usano più, soppiantati da altri, più alla moda. Nomi che difficilmente avevano un onomastico, figli piuttosto dell’amore per la letteratura, l’opera e il teatro, nomi che da soli ci parlano di un'altra Italia, l’Italia della resistenza e del dopoguerra. Sul muro era scritto: “Omaggio alle staffette partigiane”.

Il ruolo avuto dalle donne nella resistenza è fondamentale, e non abbastanza riconosciuto. Nessuna resistenza sarebbe risultata possibile senza il sostegno reale operato da queste donne che a rischio della vita davano il loro contributo di partecipazione, non solo con beni materiali, cibo, vestiti, e azioni logistiche (portare volantini, ordini, dispacci), ma soprattutto con l’essere testimoni di umanità in un mondo fattosi disumano. Perché l’azione delle partigiane è stata soprattutto quella di fare guerra alla guerra. Di conservare e tenere vivo ciò per cui la vita vale la pena di essere vissuta: il valore stesso della vita. Quel loro farsi madri, figlie, sorelle e compagne dell’umanità ci sia d’esempio e ci sorregga ora che sentiamo il mostro risorgere sotto i nostri piedi ed è necessario passare il testimone.

 

Sul divano occidentale

Goethe scrisse “Il divano orientale occidentale” in omaggio alla grande poesia persiana. Il diwan era una raccolta di canti che, eseguiti alla corte del sultano, potevano ispirare il buon governo. Il divano, in Occidente, è la sede preposta a ricevere le forme di comunicazione che poi ci ispirano azioni, pensieri e comportamenti.

Nella illusione di essere parte della Storia in diretta che la “società dello spettacolo”, per riesumare il libro di Guy Debord, ci offre, la grande maggioranza delle persone vive forme di partecipazione e coinvolgimento emotivo confezionate dal sistema dell’informazione. Normalmente è una comunicazione tesa ad alimentare la paura e lo scontro. Sia come sia, l’opinione pubblica è sempre tenuta sotto pressione dalla minaccia di turno: il terrorismo di matrice islamica, la crisi economica, l’immigrazione, poi la pandemia e ora la guerra.

Fenomeni oggettivamente diversi finiscono per provocare le stesse reazioni, alimentare le stesse morbosità e per lasciare esanimi sul divano dove nel frattempo si è resistito, magari con qualche ordinazione a domicilio su Glovo.

 

Gloria all’archibugio

L’epoca in cui le vicende dell’Orlando Furioso sono ambientate è quella della cavalleria pesante. Un mondo in cui lo scontro, frequentissimo, avveniva uomo contro uomo, facendosi a pezzi da vicino. Nell’epoca in cui Ariosto scrive avviene una grande rivoluzione: la comparsa dell’arma da fuoco cambia radicalmente il mestiere delle armi. Laddove prima era necessario lo scontro fisico, ora è possibile uccidere e distruggere da una distanza più impersonale.

L’Ariosto, intuendo la potenza devastatrice di questa rivoluzione, fa gittare il maladetto e abominoso ordigno nel profondo dell’inferno da cui è stato tratto.

Dall’archibugio al drone, ai missili nucleari sono passati cinquecento anni e l’uomo ha sempre più perfezionato l’arte e la scienza di distruggere se stesso e il mondo che abita, fino a sviluppare un arsenale che in questo momento consentirebbe di distruggere centinaia di volte l’intero pianeta.

 

Ariosto Governatore

Le lettere scritte da Lodovico Ariosto nell’esercizio del ruolo di governatore in Garfagnana restituiscono la sola testimonianza dell’etica dell’uomo Ariosto. L’impotenza con la quale scopre di non potere incidere nella realtà, una realtà in cui il potente è sempre intoccabile e l’umile il soggetto di ogni vessazione. Nel rapporto tra immaginazione e amministrazione da parte di uno degli autori più aperti alla dimensione del fantastico sta tutto il tema del rapporto tra scrittura, arte e potere.

L’amaro riconoscimento della sconfitta di chi non ha altro da offrire che parole. Ma è una sconfitta dell’umano perché “se il senno è tutto sulla luna, vuol dire che sulla terra non è restata altro che follia”.

 

La crociata dei bambini

L’innocenza dell’infanzia e dell’animale sono tra le vittime più insostenibili dell’orrore della guerra. Nella sua La crociata dei ragazzi Bertold Brecht riprende l’episodio medievale della crociata dei bambini, ambientandolo nelle nevi della Polonia a inizio Seconda Guerra Mondiale. Bambini guidati da un comandante bambino, che cercano la via per un paese di pace, dove non ci siano macerie, morte e distruzione, senza riuscire a trovarlo. C’è molto dell’antimilitarismo del drammaturgo tedesco, della sua denuncia della guerra come suprema e più disumana affermazione del Capitale, che in questa ballata va a toccare l’essenza stessa dell’innocenza.

Nessuno più invoca la pace, ovunque si cerca la vittoria. Per dirla ancora con Brecht: “la guerra che verrà non è la prima. Prima ci sono state altre guerre. Alla fine dell’ultima c’erano vincitori e vinti. Tra i vinti la povera gente faceva la fame. Tra i vincitori faceva la fame la povera gente ugualmente".

 

La cattiva educazione

Da qualche anno si è dato un nome a un crimine che non è solo omicidio, ma che ha per oggetto un genere preciso, quello femminile. La retorica e la narrazione che accompagnano questo crimine non sono scevre dalle tossicità della cultura che quel crimine ha generato. Una cultura che solo recentemente si inizia ad analizzare nei suoi risvolti più quotidiani, intimi e nascosti. Una cultura che ha segnato tutti e in grado anche di occultare i propri sintomi sotto una coltre di consuetudine.

È solo da poco che si scopre quanto manifestazioni sessiste, derubricate come atti di goliardia o addirittura di galanteria solo un po’ volgare, come il cosiddetto catcalling, siano i sintomi di quella cultura dello stupro che è dietro ai crimini derubricati come femminicidio.

C’è un problema millenario di cattiva educazione, che va dalla mancanza di educazione alla gestione delle emozioni, del rifiuto e della separazione, all’esercizio del possesso, alla violenza domestica, al silenzio che l’accompagna, all’incapacità di dare un nome a una condizione e a un malessere. Tutto questo è cattiva educazione: i crimini che offendono l’umanità intera di cui sono piene le cronache sono l’ultimo effetto della cattiva educazione che li ha generati. Cattiva educazione collusa con un frainteso e pericoloso uso e abuso della sessualità, del corpo, della violenza e del possesso coperti dalla nebulosa giustificazione, che è in realtà un’aggravante, della parola Amore.

 

Minorità

Kant definiva l’Illuminismo come condizione di uscita dallo stato di minorità inteso come incapacità di servirsi della propria intelligenza senza la guida di un altro. La minorità è l’incapacità di essere padroni della propria volontà, l’incapacità di assumersi le proprie responsabilità e di diventare compiutamente adulti. Una condizione che ogni potere ha sempre coltivato, dagli antichi monarchi per i quali il popolo doveva essere un docile corpo senza testa propria, alla condizione di omologato individualismo in cui versiamo oggi.

Ma c’è un’istituzione che più di ogni altra realizza la condizione di minorità con l’uso della forza: il carcere. Il detenuto, alla base della cui detenzione dovrebbe esserci un percorso di riabilitazione atto a realizzare un cambiamento della persona, diventa un minore sul quale la patria potestà è esercitata da un sistema di regole in cui nessuno è direttamente responsabile. Questa organizzazione burocratica dell’esercizio dell’autorità si concretizza in una lunga catena che, da una porta a sbarre all’altra, trova il suo ultimo anello nella cosiddetta “domandina”, indispensabile formulario per ogni richiesta nei confronti dell’Autorità.

I documentati abusi nelle carceri, le violenze e le restrizioni dovute alla pandemia, il sovraffollamento e i suicidi, l’alta percentuale di recidiva, sono come urla dal silenzio che vengono dagli istituti penitenziari alla cosiddetta società civile. Nella composizione della popolazione carceraria si riflette in maniera palese tutta la disparità sociale ed economica su cui si regge la società, che fa sentire rivolta a tutti noi la domanda che l’ergastolano Salvatore pone al suo giudice nel bellissimo libro del magistrato Elvio Fassone Fine pena: ora (Sellerio): «Che sarebbe successo a Lei, se solo fosse nato dove sono nato io?».

 

Cha Cha Chaf della pozzanghera

Il bambino cessa di essere bambino, nella sua più istintiva manifestazione di libertà e affermazione gioiosa dell’istinto, quando davanti a una pozzanghera smette di saltarci dentro e, più prudentemente, inizia a girarci intorno senza sporcarsi.

In questa allegoria semplice della pozzanghera c’è molto della perdita della fisicità che accompagna l’infanzia delle ultime generazioni, chiamate a conoscere il mondo più per interposizione tecnologica che per esperienza diretta. Saltare nella pozzanghera, rompere il riflesso dentro, è il modo più efficace e naturale di accedere al cielo e giocarci insieme. Perché, di nuovo, non è l’Utile il fine del gioco, il fine del gioco è giocare.

L’onomatopeico cha cha chaf non ci fa solo sporcare nella pozzanghera, ma ci fa ballare dentro.

 

Il tempo dei regali

In questi ultimi due anni di confinamento a singhiozzo a tutti noi è scorsa davanti agli occhi la vita. Per chi ha la mia età, si comincia a vedere il periplo del percorso, e ci si rende conto che le cose più importanti sono state il dono, il viaggio, l’incontro. Le cose che non hanno prezzo e per questo sono regali. Perché, in ultima analisi, è la vita stessa a essere un regalo.

Forse è a questo che pensava il grande scrittore di viaggio Patrick Leigh Fermor quando ha voluto intitolare Tempo di Regali il meraviglioso libro che racconta il suo primo viaggio, svolto a piedi, diciassettenne, da Londra a Istanbul, nel 1933.

Pure attraversando un’Europa già preda dei totalitarismi, il suo sguardo è sempre ricolmo di curiosità, ricchezza e umorismo, mai toccato dall’odio che pure gli va montando intorno. Tutta la strada è percorsa con questa sensazione di gratitudine. Una gratitudine non inquinata dalla nostalgia.

Quella gratitudine che ci fa guardare alla strada percorsa come a una specie di miracolo, come se la bellezza fosse sempre a disposizione di tutti, solo a patto di prestarci attenzione. Un miracolo rinnovabile, anche in tempi bui, coltivando la certezza che altri regali ancora ci saranno e che se pure il cammino produce continuamente il distacco, la separazione e la crepa, la Grazia è lì pronta a soccorrerci e a guarirci portando tutto a Unità.

 

Con i tasti che abbiamo

Un pianoforte a cui sono stati asportati i tasti rovinati dai miei nipoti giocando, mi ha dato lo spunto per riflettere sul fatto che una melodia si può ottenere anche solo usando i tasti ancora rimasti.

Una melodia semplice, sdentata, ma anche forte, che riafferma il “potere dell’immaginazione”.

E allora, per estensione, di ogni cosa si dovrà fare con quello che si ha, non con quello che si desidererebbe avere. Da quello che c’è in cucina, al pianeta che abbiamo a disposizione, sempre dovremo confrontarci con la finitezza delle cose, e nei limiti abituarci a vedere una possibilità.

Perché le nostre menti sono diventate urgenti

Le tredici canzoni urgenti scritte, cantate e musicate da Vinicio Capossela sono parte e sostanza di un’opera d’arte magnifica che vive al crocevia dei nostri spaesamenti, dei nostri turbamenti, dei nostri sentimenti, delle nostre paure invadenti, delle nostre speranze sorprendenti, dei nostri amori incandescenti e fluorescenti, delle nostre malinconie travolgenti, delle nostre allegrie impenitenti. Tutti noi, devoti viandanti di questa vitaccia, siamo diventati urgenti. Ci muoviamo come se avessimo un segnale di pericolo incorporato, come se avessimo perso il senso del fatato ingabbiati in un mondo decomposto e squilibrato. Ostinati fummo, siamo e saremo nel cercare di capire perché le nostre menti sono diventate urgenti, smarrite in una nebbia in cui le domande e le risposte  ondeggiano inconcludenti. Tutto questo fino a quando la voce limpida e poetica di Vinicio Capossela ci attraversa ed entra nel nostro cuore come una goccia di acqua pura che cade nell’inferno.

Allora, in quel preciso momento, la sua voce allontana ogni scoramento e risveglia come in un ringraziamento la voglia di pensare, cantare, ballare, fantasticare, pacificare, musicare e poetare rivelando così finalmente la vera essenza di ogni esistenza. Quando canta Capossela lo fa orchestrando tutti i sentimenti, mescolando musica e letteratura, teatro e cinema, pittura e balletto e il risultato è necessariamente qualcosa di perfetto. Ascoltando più volte con godimento queste tredici canzoni urgenti ho pensato che Vinicio le lanciasse come salvagenti per mitigare il naufragar delle nostre menti. Il brano che amo di più di questo album si intitola “Il tempo dei regali“. Su questa scia, con tutta la passione che mi è rimasta in corpo, voglio dire che considero questa nuova opera d’arte di Capossela un regalo splendido e vitale che al cuore porta ristoro perché profuma di capolavoro. 

Vincenzo Mollica