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Lasciare il reale ed entrare nel vero...

In tempo di peste, come nel Decamerone, ci si rifugia nel racconto, non prima di avere esposto la propria denunzia. Una pestilenza infuria in questo momento della storia: una pestilenza morale, etica, di linguaggio. Corre nella rete, nuovo pneuma che trasmette pulsioni antiche.

Nella pestilenza si diffondono più velocemente la tendenza verso il basso, la corruzione del linguaggio, la violenza, la pornografia in luogo del desiderio. Siamo entrati in una nuova fase della rivoluzione tecnologica nella quale si iniziano a misurare le conseguenze della Produzione. Negli ultimi cento anni il pianeta ha subìto un’accelerazione che cancella la storia precedente. Un cambiamento strutturale che si avvia all’irreversibilità. Il senso del sacro, di manifestazione del sacro nella natura, è scomparso. La religione si è fatta presupposto di conflitto. Gli studiosi definiscono questa era Antropocene, a sottolineare quanto l’uomo abbia modificato la sostanza stessa del pianeta e dei suoi abitanti.

Nell’infuriare della peste, nel racconto, nel canto, diventa necessario ricomporre l’unità per cercare un nuovo rapporto con la natura delle cose. Con il sacro e con le bestie, creature viventi con cui dividiamo la vita sulla terra. La relazione con l’animale è passata dalla ierofania delle grotte di Lascaux al bestiario medievale, nel quale la natura assumeva la forma del libro e la realtà era vista come simbolo, fino ad arrivare oggi ad un rapporto con le bestie che, per quanto molto più dibattuto e consapevole che in passato, spesso si consuma principalmente nel piatto. Oppure è culturalmente mediato da peluches, fiabe e cartoni animati.

La bestia però r-esiste, soprattutto nell’inconscio. Sogniamo animali più di quanto non li incontriamo. In un sonno che ci riporta all’inizio del mondo, a un grembo comune fatto di oscurità profonda e densissima. A quel buio primigenio è seguita una separazione, l’attraversamento di un limite non reversibile. Siamo confinati nella rigidità della forma umana alla quale ci relegano milioni di anni di evoluzione.

In questo Medioevo altro e tecnologicamente evoluto, fatto di nuove crociate, rinnovate guerre di religione, oscurantismo, lavoro industriale sulla paura, diffusione virale di pestilenze, dietro di noi, a volte a fianco, o inconsciamente partecipi, stanno gli animali, le bestie come irrisolto punto di accesso al mistero della natura, anche umana.

 

Questo il tema. Nello svolgimento una questione di forma: la ballata, come occasione di pratica metrica e di svincolamento dalla sintesi. Nella ballata non è obbligatorio essere brevi. Dai primi trovatori la ballata prende il caos delle parole in libertà, l’esperienza liquida del divenire, la riduce a storia e la compone nel fluire di strofe.

Prendono parte al ballo, nella parte di infiltrati, autori di grandi ballate, voci amate come quelle di Oscar Wilde, John Keats e Francesco d’Assisi, insieme al genio di un erudito duecentesco, Richard de Fournival, autore di un meraviglioso Bestiario d’amore, che oltre ad educarci e spiegarci la complessità e i meccanismi naturali della seduzione amorosa, ci ricorda che tutto sommato, con le parole di Robert Mcliam Wilson, tutte le storie sono storie d’amore. Pure l’assurda, distruttiva e sanguinosa storia dell’umanità.

Vinicio Capossela

Brano a brano

Uro

Cominciamo dall’inizio, dalla grotta di Lascaux, dove Picasso ha potuto affermare «Ho trovato infine il mio maestro» e il maestro è l’uomo nel suo primo atto di affrancamento dalla legge della sopravvivenza. L’uomo che inventa il gioco e l’arte e raffigura animali, tra i quali si dipinge piccolo e nascosto a sua volta in una testa di animale. Fin dall’inizio l’accesso al sacro, al mistero, ha per l’uomo il volto dell’animale. Il loro enigma è tutto quanto è stato perduto e precluso alla eretta condizione umana, che consente di sollevare lo sguardo al cielo. Percepire il più vasto da sé, la meraviglia, il meravigliarsi e quindi l’interrogarsi sulle cose. In principio fu la Meraviglia, e le grotte di Lascaux ne restituiscono intatto il senso.

 

Il povero Cristo

Cristo non è riuscito ad insegnare agli uomini a salvarsi con il precetto più semplice che è quello in cui è racchiusa tutta la Buona Novella, il lieto annunzio: «Ama il prossimo tuo come te stesso». Un precetto semplice, ma impossibile per l’uomo. Per questo Cristo si è fatto povero ed è finito povero Cristo. E ora tace mentre l’uomo grida a più non posso.

 

La peste

E da quell’osso lanciato nel futuro eccoci nella più virulenta contemporaneità, nella rete del tweet, del virus, dell’influencer. Il pneuma più innovativo, rivoluzionario, lindo, algido, fatto di silicio e cristalli liquidi, aere di propagazione efficacissimo, istantaneo e capillare di nuove pestilenze, mosse da bacilli innati, pulsioni antiche. Let's tweet again... balliamoci sopra... La peste, come diceva Artaud, rade tutto al suolo, rende tutti uguali. L’illusione di essere tutti unici mentre si è più omologati che mai.

 

Danza macabra

La paura, la paralisi provocata dalla paura è da sempre uno degli strumenti più utilizzati da chi esercita il potere. La gente impaurita più facilmente rinuncia ai diritti, a partire dal diritto di pensare. E la paura più grande è stata e resta la Morte, il solo tabù tuttora vigente nel mondo occidentale. Nel Tardo Medioevo è stato un fiorire di danze macabre, scheletri che danzano ammonendo Hodie mihi cras tibi, oggi a me domani a te. Un memento mori che però porta con sé anche irrisione e liberazione nel Trionfo della Morte, la sola cosa uguale per tutti.

 

Il testamento del porco

E a morte in sacrificio arriva, dopo una vita d’ingrasso, la creatura più prossima all’uomo, tanto negli organi interni, quanto nei nomi e negli aggettivi che più di ogni altro animale sono entrati nel nostro lessico: il porco maiale. Che spesso ha due differenti nomi a seconda che lo si intenda da vivo o da morto. Creatura vivente o prodotto alimentare. Sul maiale si è retta la civiltà della terra prima che l’industria alimentare lo allontanasse dalle nostre vite riducendolo a prosciutto o a cartone animato. Il porco, che non riesce a vedere le stelle, ma ben grufola a terra, fa testamento. Ed è il testamento dell’uomo che ha voluto vivere con tutto il suo corpo che è appunto anagramma di porco.

 

Ballata del carcere di Reading

«La mia ballata soffre delle difficoltà di un duplice obiettivo stilistico: in parte è realistica, in parte romantica, in parte poesia, in parte propaganda». Così diceva del suo ultimo componimento Oscar Wilde. E aggiungeva: «Cristo non è morto per salvare la gente, ma per insegnare alla gente a salvarsi a vicenda». E in effetti la sua Ballata è non solo uno dei più lucidi atti di denuncia del sistema carcerario e soprattutto della pena di morte, ma anche del tradimento della pietà e dell’insegnamento di Cristo. Wilde, il più straordinario esteta, cultore della bellezza e dell’artificio, scopre nella caduta il sentimento della com-passione e lo restituisce in questa ballata, che senza quella caduta non avrebbe mai scritto. È il suo ultimo canto, il grido di Marsia più che il canto di Apollo. Il grido levato in un mondo che, come la bella dama, è senza Pietà.

 

Nuove tentazioni di Sant'Antonio

Un aggiornamento nel mondo contemporaneo delle tentazioni del celebre Abate che, come Prometeo, si calò all’inferno per rubare il fuoco e portarlo agli uomini in scintilla di ragione. Sant’Antonio Abate va nel deserto, si nutre di radici cercando Dio. Celebri sono le sue Tentazioni, che, tra i molti, hanno ispirato Bosch nel suo magnifico trittico. Molti demoni gli compaiono davanti. È accompagnato da un porcellino, forse a simbolo della tentazione della carne. Nella sua notte, il 17 gennaio, si accendono fuochi per risvegliare la terra e fanno la prima uscita dell’anno maschere zoomorfe; Krampus, Merdules, Wilder Mann, come creature infere che emergono dalla terra battendo ossa e campanacci. In quella notte nel mondo contadino si benedicevano le stalle e gli animali parlavano. Ma se il male si presentasse ad Antonio oggi, con quali tentazioni lo sedurrebbe?

 

La belle dame sans merci

Inverno e foresta sono i luoghi della fiaba e dell’incantesimo. Del lupo, dei cavalieri erranti e delle fate. In una foresta, sul costone del monte ghiacciato, su un lago-specchio, l’incantesimo paralizzante dell’amore che riflette la nostra immagine che non si completa. Solitudine che, liberata una volta dalla sua prigionia, rompe e perde l’unità. Si diventa per sempre solo creature dimezzate, incapaci più di muoversi, paralizzati dall’attesa di chi non torna perché non esiste.

 

Perfetta letizia

A imitazione di Cristo, Francesco si insubordina alla legge dell’accumulo, fa della povertà la più preziosa sorella e, spogliandosi di tutto, è l’unico che parla a uomini e bestie. Questo è il suo miracolo più grande: parlare con il creato, parlare con gli animali. Non ammansirli, ma parlare loro. Nella semplicità della lingua dei Fioretti il chiarore di un'armonia interrotta e impossibile. Un'armonia da cercare non nel sacrificio, non nella costrizione, non nel cilicio, ma nella Letizia... La perfetta letizia del sostenere la pena della vita con allegrezza, perché il solo nostro bene, l’unico che possiamo attribuire davvero a noi stessi, l’unico vanto, è sapersi portare la nostra croce... La pena del vivere.

 

I musicanti di Brema

L’asino e poi il cane, il gatto e il gallo, i quattro famosi musicanti della fiaba che, destinati a morte da esaurimento nel ciclo produttivo, si uniscono per fare finalmente una cosa inutile. Dopo tanto avere sgobbato, andare a suonare a Brema e mettere insieme una banda. Se anche sei esodato, licenziato, mettiti insieme a chi è come te e forma una rock band, anzi peggio: una banda municipale.

 

Le loup garou

La melanconia mannara assale il licantropo melancolico, non nelle notti di luna piena, ma nei giorni del rito elettorale quando il paese si denuda. Lì un desiderio vivo lo assale, un desiderio di carne cruda. Il desiderio vivo di tornare alla ferinità, alle corse di notte, a sbranare ricordi e condizione sociale... Lasciare il reale ed entrare nel vero... Lasciare a terra i vestiti della realtà e vestirsi di quello che è dentro, la verità interiore dell’essere. Il versopelo è l’animale che si può scoprire soltanto amputandogli gli arti, con la disamina scientifica dell’autopsia. La corsa per infrangere il limite tra uomo e animale, tra vivi e morti, tra realtà e Verità, è destinata a concludersi con l’amputazione, in nome della norma.

 

La giraffa di Imola

Un'altra corsa simile nell’esito, una corsa che reclama la bellezza, una bellezza impossibile e manifesta in questa creatura fonte di meraviglia: l’apparizione di una giraffa ancora a inizio Ottocento viene ricordata come l’evento più eclatante del regno di Carlo X. E un’altra volta la violenza del mondo antropizzato e organizzato nelle sue macchine e lamiere, nel suo asfalto e cemento. La corsa di questa giovane giraffa per le strade di Imola esprime tutta l'impossibilità della coesistenza, il patto rotto con la natura, l’infanzia del mondo che urta con gli oggetti del nostro vivere quotidiano associato. Che improvvisamente si mettono a nudo in tutta la loro durezza ed esclusione... Sempre questi stranieri senza permesso... E nemmeno la giraffa ce l’ha il permesso di circolar. Come una grande gabbia da dove non è possibile uscire se non da morti. Una morte da sedativo, non da fucile da caccia. In quella corsa della giraffa, facilmente rintracciabile in rete, tutti i recinti e i fili spinati e il mare-sepolcro che circondano la “fortezza Occidentale”.

 

Di città in città (...e porta l'orso)

Un viaggio d’inverno. L’occasione non presa. L’amore non colto e l’esilio a vita, nella vita. Se non si ha un posto dove stare si parte, esiliati dagli uomini in una natura il cui re, l’orso, si è fatto buffone. Invece di una pena, girare di città in città portando l’Orso ammaestrato dagli orsanti con l’anello al naso e le piastre incandescenti sotto i piedi, che balla con la capra in pizzo e calzette. Un viaggio d’inverno del senza patria, il solitario del Winterreise: il viaggio nell’inverno stagione della solitudine e del ricordo.

 

La lumaca

Bisogna farsi piccoli per accorgersi dell’altro, fare spazio per percepire il mondo. Più il nostro ego ingombra più il mondo rimpicciolisce fino a sparire. La lumaca, che in sé riassume il mistero del minuscolo così come del gigantesco, questa creatura umile che ha posto la materia dura all’esterno, per difendersi, ma anche per alloggiare nel mondo. Materia disposta a spirale. La forma di un guscio di lumaca è la stessa di una galassia... la sua lentezza è cosmica... aderente a terra, in armonia col cielo... Il suo insegnamento è quello del passare, in opposizione al restare. Sul restare si fonda l’accumulo, sul passare l’esistere. Umile, c’è spazio per tutti.

La sacralità senza dogma della lumaca, della sua lentezza, del cosmo riprodotto nella sua forma è la sacralità immanente del mondo che queste ballate per uomini e bestie vorrebbero celebrare.

Vinicio Capossela

 

Un tempo non troppo misericordioso

Dall’incredibilmente smisurato all’infinitamente piccolo, dalla litania alla danza macabra, dai fioretti aggraziati di San Francesco alle tentazioni infuocate di Sant’Antonio, da John Keats a Oscar Wilde (e viceversa). Ballate e bestiari, medioevo e modernità, leggerezza e abisso.

Sono vaste, le «Ballate per uomini e bestie» che Vinicio Capossela propone a tutti quelli che vogliano sentirle, ballarle e in qualche modo condividerle, in un album del tutto contemporaneo e del tutto arcaico. Il folk universale che lo percorre unisce musicisti simili nella curiosità e differenti nelle strade percorse. E se alcuni di loro navigano sulle rotte di Capossela da svariati anni (Marc Ribot, Peppe Frana, Gak Sato, Giovannangelo De Gennaro, Alessandro “Asso” Stefana, Jim White e George Xylouris, Stefano Nanni), «Ballate per uomini e bestie» vanta collaborazioni inedite con musicisti straordinari come Massimo Zamboni, Teho Teardo, Daniele Sepe, Sebastiano De Gennaro e Raffaele Tiseo. Tutti insieme, con l’Orchestra Nazionale della Radio Bulgara, arricchiscono un’arca sonora in cui troviamo tutte le specie, inclusa la nostra.

 

In esse si compie il percorso avviato da «Ovunque proteggi» nel 2006, proseguito, con molte curiosità e altrettante deviazioni, in album come «Marinai, profeti e balene» (2011) e il recente «Canzoni della cupa» (2016): il folk diventa ancestrale, la ballata si espande dalle sue proprietà di genere e abbraccia, in qualche modo, zone lontanissime fra di loro, dalla laude religiosa all’invettiva profana. Non è un caso che la ballata del titolo sia una forma eternamente sfuggente ed eternamente ricorrente nella nostra cultura, dal Medioevo, in cui si balla con i toni della poesia, fino all’Ottocento, in cui le si attribuiscono caratteristiche popolari che ha portato nei movimenti lenti con cui si è avvicinata al rock o al pop. Una forma che consente a Capossela di sganciarsi dalla sintesi per abbracciare completamente il racconto e in cui c’è spazio per la contemplazione e la denuncia, senza mai smettere, anche piano, di ballare.

 

È un incedere che ha accompagnato per due anni la registrazione delle canzoni in luoghi distanti fra loro, per suoni e orizzonti; Milano, Montecanto (Irpinia) e Sofia (Bulgaria). Tre mondi che si uniscono, appunto, in un continuo dialogo fra antico e moderno, fra rurale e urbano, fra forme primitive ed evoluzioni contemporanee.

Sato, De Gennaro e Teardo forniscono l’inquietudine, la pulsazione, la ricerca timbrica e ritmica dei nostri tempi; i fiati di Sepe alternano a cromatismi bandistici le sonorità abrasive dei cromorni folk medievali; la Bulgarian National Radio Symphony Orchestra aggiunge uno spiccato senso di appartenenza e di tradizione, così come gli arrangiamenti di Raffaele Tiseo e Stefano Nanni - il primo figura di riferimento nella musica popolare antica e barocca italiana, il secondo direttore d’orchestra e coro già al fianco di Capossela dai tempi di «SS dei Naufragati» - caratterizzano la vestizione dei brani arricchendoli di riferimenti musicali storici e immaginifici.

 

La chitarra di Marc Ribot allarga con i suoi interventi gli orizzonti sonori del disco e completa la serie di preziosi apporti che rispondono alla richiesta di Capossela, qui per la prima volta produttore artistico del progetto, di affidare l’arrangiamento e l’esecuzione di ogni brano a un gruppo definito di collaboratori e la sua registrazione al consueto rigore di Taketo Gohara affiancato da Niccolò Fornabaio.

 

Non può esserci così che la musica, a segnare il passo: lieve e battente, essenziale e stratificata. Una dinamica, dal sussurro all’urlo, che allinea storie in cui la sopravvivenza forse non è necessaria: lo è di più il ricordo.
La dedica di questo disco è a tutti noi creature della terra: poveri cristi, giraffe, orsi o lumache con l’Infinito dentro. In questo cammino dall’alba del tempo si percepisce lo scalpiccio oramai perduto dell’ Uro, avviene la trasformazione necessaria del Loup garou, si descrive La peste di oggi, per niente lontana, nella sua forza annientatrice, da quella di ieri: solo, più capillare nella sua penetrazione.

 

E se il diluvio e la pestilenza (non solo tecnologica) sono vicini, anzi, sono arrivati, tanto vale affidarsi alla narrazione più o meno spaesante (ad esempio quella della povera giraffa di Imola, senza più un posto al mondo dove andare), ai testamenti utili – come quello del porco –, al fuoco del demonio che diventa tanto saggezza quanto misconoscenza, oppure fare come i musicanti di Brema, scartati dall’utile industriale e rinati nell’inutile bellezza di un’orchestra municipale.

I movimenti dei suoni si allineano con quelli dei racconti, o delle poesie musicate. Il sacro, il profano e la disperazione de «Ballata del carcere di Reading», «La belle dame sans merci», «Perfetta letizia», «Le nuove tentazioni di Sant’Antonio», la solitudine che porta «Di città in città» e l’irrisione estrema nel sacrificio de «Il testamento del porco»: un repertorio vario, ricondotto ad unità da uno stile che rimane riconoscibile senza smettere di essere inquieto, assorbente, curioso. Come fossero cronache da un immaginario post Medioevo che finiscono per rendere questo lavoro, forse il più stratificato nel passato per riferimenti, quello più in grado di raccontare – ed esorcizzare - il presente.

 

Non ci sono categorie perentorie per quello che Vinicio Capossela scrive, canta e suona: e meno male. In questo caso, le Ballate per uomini e bestie non sono soltanto l’undicesima tappa del suo grande viaggio nella musica, ma incarnano soprattutto riflessioni, spunti poetici e tessiture musicali che questo tempo non troppo misericordioso ha ispirato a un trovatore di oggi.

John Vignola

La peste

Nella mia musica ci vorrebbe essere poesia, filosofia e denunzia. Sono tre cose che potrebbero aiutare a capire che chiunque si rende partecipe dell’oscenità, è osceno a sua volta. Chi di oscenità ferisce di oscenità potrebbe perire. L’oscenità, il buttare sulla scena pubblica, quanto è per sua natura privato è il grande tema dell’attualità, soprattutto in relazione al grande lavacro della rete.

Il web è un mezzo potente in cui non si è ancora elaborata un’etica e una normativa, ma è come l’aria: non è la pestilenza, ma il mezzo attraverso cui si trasmette. Io mi rifugio dalla dittatura dell’attualità nutrendomi delle cose belle che l’uomo ha cercato di lasciare, i libri, i quadri, la musica. Purtroppo oggi che finalmente ci si affranca dalla fatica con le macchine, ciò non significa benessere diffuso, ma invece aumentare la diseguaglianza sociale. Ci sono strumenti tecnologici magnifici di accesso alla cono-scenza, e invece diventato strumenti di accesso all’odio, alla disinformazione, al basso invece che all’alto.

È nella malattia che devono svilupparsi gli anticorpi. Si deve prendere consapevolezza del morbo. Serve non abituarsi a vedere come normali atti di barbarie perché sono di uso comune. Un uso del linguaggio, nella ci-viltà dei social. La rete apre frontiere nuove e inimmaginabili, che possono molto arricchirci o molto impoverirci. Proprio perché i mezzi sono potenti occorre maggiore senso di responsabilità. Una educazione anche etica. Ora come ora possono apparire normali cose mostruose, atti di ob-scenità che arrecano danni gravissimi alle persone, danni ben poco virtuali. La speranza è il lavoro contro la paura della vita, è lavoro contro coloro che impauriscono e terrorizzano. 

 

Ho molto apprezzato, di recente, la petizione di rendere l’uomo patrimonio dell’umanità. Iniziativa lodevole: se ci pensiamo, è proprio l’umanità a essere minacciata, non tanto l’uomo.

Voglio dire che la sensazione di essere alla fine è antica e ricorrente. Quindi mi interessa una tematica come quella della peste, un’estinzione collettiva, che ha i suoi meccanismi. Come la negazione iniziale della malattia, che comporta il non nominarla nemmeno, e poi c’è la faccenda del discioglimento dei legami di solidarietà sociale, e occorre sopravvivere ognuno per sé, poi l’insorgere delle false credenze e della ricerca del capro espiatorio, tutti meccanismi ricorrenti di una forma di pestilenza morale e poetica, soprattutto per la capillarità del contagio, che nella rete, ad esempio, è molto molto efficace.

La peste, chiaro, è una malattia antica e disperata, che si diffonde troppo velocemente e non lascia scampo, e per questo rende l’uomo edonista ed egoista, in una parola animale. Quella di oggi, poi, è una pestilenza morale, etica, di linguaggio, che corre nella Rete, nuovo pneuma che trasmette pulsioni antiche”. La lista dei sintomi è lunga: “Nella pestilenza si diffondono più velocemente la tendenza verso il basso, la corruzione, del linguaggio, la violenza, la pornografia in luogo del desiderio. Eccoli i nostri mali contemporanei, pronti a spolparci come una volta il contadino faceva con il maiale, che spesso ha due differenti nomi a seconda che lo si intenda da vivo o da morto, creatura vivente o prodotto alimentare.

La peste smonta tutto, sgretola l’edificio sociale. Già nei racconti di Tucidide o di Boccaccio c’è la rescissione di tutti i vincoli affettivi, sociali, naturalmente terrorizzante. Tipico delle pestilenze è la loro negazione: Manzoni scrive che i medici che l’avevano irrisa erano stati poi costretti a riconoscerne l’esistenza, ma parlavano di febbri pestilenziali, per esorcizzarla. La denuncia del sintomo è osteggiata da chi detiene il potere. Il non sapere nulla del male consente la scorciatoia del capro espiatorio, dell’untore. Oggi ci sono lo straniero, l’immigrato, il rom. E c’è un mezzo di contagio formidabile, il più capillare che l’uomo abbia mai inventato, qualcosa che può raggiungere ciascuno di noi, in ogni momento e con qualunque contenuto: la falsa notizia, la credenza, l’amore, la pornografia, il voyeurismo. La Rete, i social. In un sistema capitalistico, con l’informazione usata a fini di guadagno, la tecnologia offre mezzi sempre più potenti con la massima semplificazione. Non c’è nessuna profilassi, vale tutto, siamo in una fase di anarchia, senza senso di responsabilità. Accadono vicende criminali come quella di Tiziana Cantone, in cui chi aveva visto quel video non aveva la consapevolezza di dare una coltellata a una vittima, o l’orrenda strage in Nuova Zelanda, compiuta per essere condivisa. L’atto osceno in luogo pubblico è un reato, esiste un luogo più pubblico della Rete? Eppure non è punito, e neppure esecrato: l’atto obscenus, quello che dovrebbe stare fuori, invade la scena. In questa nostra epoca igienica, incontaminata, la pestilenza si trasmette con il mezzo più asettico e pulito, il cristallo liquido, il silicio, lo schermo.

Vinicio Capossela

 

 

Per ulteriori stralci di riflessioni portate avanti da Vinicio Capossela su «Ballate per uomini e bestie», si rimanda a queste interviste disponibili su Internet Archive sia per la consultazione, sia per il download