Un disco in due parti...
“Canzoni della Cupa" è un disco in due parti, anzi, in due lati.
Il lato esposto al sole, il lato che dissecca, che asciuga al vento. Il lato della Polvere.
Il lato della ristoccia riarsa, su cui il grano è stato mietuto. Il lato del lavoro costato quel grano. Il lato del sudore e dello sfruttamento di quel lavoro.
E poi il lato in Ombra, il lato lunare, il lato dello sterpo e dei fantasmi. Il lato degli ululati e dei rovi, dei rami che contro luna danno corpo alle creature che si fanno vedere da uno solo alla volta per sfuggire alla classificazione zoologica. Il lato delle creature della Cupa, del pumminale, del cane mannaro, della bestia nel grano. Il lato dei mulattieri che rubano legna la notte, il lato delle fughe d’amore. Il lato delle apparizioni.
E’ un disco in due parti e si è sviluppato in due stagioni di registrazione. Due annate distanti tra loro più di un decennio perché i rovi s’ispessissero e mettessero più a fondo radici. Perché quella Polvere generasse l’Ombra.
La prima registrazione avvenne al secco della stagione, nell’estate 2003. Una sessione scarna, disseccata, appunto. Due violini, un cymabalon, un contrabbasso e la voce accompagnata dalla sua chitarra…
E poi, undici anni dopo, la sessione nell’ombra dell’autunno 2014 dilatata fino al 2015. Quei brani avevano generato altri brani che si raccolsero in una sessione ritirata, registrata tra i vicoli del paese dell’Eco, al fuoco di fornacella, nel paese dell’origine.
Dalla frontiera maternale d’oriente, quella del gallo turco nascosto già nel bagagliaio di liveinvolvo, sono poi dilagate oltre oceano, fino a raggiungere l’altra frontiera che le coste paternali dell’Ofanto da sempre mi evocano… Quel west che qui tutti si vogliono fottere, tanto hanno avuto esperienze di selle, muli, ferrovie e paesaggi da resa dei conti.
Dalla frontiera del lupo, le vallate irpino lucane, alla terra del coyote, l’opera si è andata completando con la frontiera texano mexicana di Flaco Jimenez in San Antonio, Texas, quella dei Calexico del deserto di Tucson, fino a quella dei Los Lobos, i lupi che stracciano la notte tra Messico e California.
Nei vicoli del paese dell’origine sono venuti in diversi, voci e strumenti che del canto della terra hanno esperienza, Giovanna Marini, Enza Pagliara, Antonio Infantino, la Banda della Posta, Francesco Loccisano, Giovannangelo De Gennaro, e da più lontano Howe Gelb, Victor Herrero, Los Mariachi Mezcal, Labis Xilouris, Albert Mihai e diversi altri sempre accolti dalla triade produttiva della Cupa, Taketo Gohara, Asso Stefana e l’autore medesimo.
Ogni paese dell’Italia interna - le terre dell’osso non lambite da mare o città, terre dove i paesi si arroccano su dirupi quasi a difendersi dal mondo, circondati da mari di argille e di terre e di notte - conosce questa geografia dell’anima.
Ognuno di questi paesi è diviso in due lati, un lato in luce e uno in ombra, un dualismo che compone un’unità immobile. Ferma in un tempo circolare, che si ripete in eterno, come il tempo della terra e delle stagioni.
Ognuno di questi paesi ha una contrada detta Cupa, un lato meno battuto dal sole dove l’immaginario e l’inconscio hanno ubicato le Leggende, e un lato riarso sul dorso della terra, un lato chiarito dall’ordine del Lavoro. Un lato di polvere e sudore.
Questi due lati compongono un cerchio, un cerchio in cui il tempo si muove immobile.
A questo mondo attingono queste canzoni. Un mondo folclorico, rurale, mitico e mitologico, a cui ho cercato di dare voce affidandomi all’opera preesistente di un cantore come Matteo Salvatore, e poi al patrimonio delle canzoni di paese, e soprattutto a quel grande bacino che racchiude la saga epica della comunità, quello dei sonetti, i versi in rima, mai scritti, che si cantano uniti, affastellando le voci. E altri ancora ne ho trovati dentro di me, a lungo cercando tra i gradini, i vicoli, i rovi e le terre. Tutti insieme, affastellati negli anni come fascine da fuoco, sono diventate le Canzoni della Cupa. Canzoni che mi hanno dato calore e radice, paura e conforto.
Non c’è nulla di rassicurante nella musica folk, affermava Dylan. Ed è vero. Sono canzoni in cui l’uomo è esposto alle forze della terra, alle sue radici che avviluppano e strangolano, ai suoi rovi che infliggono ferite, alle forze della notte, ai dirupi di una natura crudele e arcana, allo sfruttamento e alla sopraffazione dell’uomo sull’altro uomo. Che espongono alle malizie umane, alla crudeltà delle piccole comunità. Musiche che non lasciano fuori dalla porta il lutto, la separazione e il dolore. Che non pongono limiti alla Festa, all’abbondanza dissipatoria che sconfina nella morte. Ma sono anche canti che ricompongono un rapporto tra cielo e terra, condizione in cui spesso stiamo sospesi incoscienti, inconsapevoli, come sonnambuli. Che ci fanno ancora sentire freddo, emozione, desiderio, paura, senso dell’avventura, euforia, lutto e morte. Che ci dicono di appartenere a un mondo più vecchio di noi, a cui la Storia cambia volto e superficie, ma che resiste, e ci ricorda di essere solo uomini sulla terra nuda.
Terra cupa sfuggita al cielo.
Brano a brano: Polvere
Polvere è la schiuma della terra, terra seccata dal sole, dal vento, dal tempo. Ma polvere è anche humus, umano, la polvere che ci ha originato e a cui torneremo. Polvere sono le radici, effimere, che ci legano alla terra. Queste canzoni sono esposte al secco, al lavorio della polvere, ma sono anche la terra in cui affondano le radici di questi canti.
Femmine
Canto di lavoro di tabacchine raccolto dalla voce della signora Addolorata Lia in Patù. Ricordo dei tempi in cui quel lavoro praticava, rimodulato sulla scorta dei canti di lavoro e prigione delle registrazioni di Alan Lomax. Il mondo delle raccoglitrici di tabacco che tanto ricorda il cotone della cultura dei neri d’America per la fatica e l’abuso, ha di suo la licenziosa malizia.
Il lamento dei mendicanti
Blues arido, di siccità, di fame e sete. Il primo pezzo ascoltato di Matteo Salvatore, il grande cantore dell’ingiustizia e dello sfruttamento nel mondo del latifondo meridionale degli anni ‘50. Un canto che si porta dietro le pezze, gli stracci, i sonagli di quei mendicanti a cui Camporesi ha dato solenne veste nel suo libro dei vagabondi.
La padrona mia
La padrona del mio cuore, ma anche la signora della massaria, figura con molte variazioni in diverse ballate a sonetto. Sempre troneggia nella sua femminilità inaccessibile e dirompente. Questa versione prende la prima strofa dalla forma popolare e poi si avventura tra l’elaborazione dell’autore e quella di Canio Vallario, maestro B’llino.
Dagarola del Carpato
Storia cantata raccolta dalla memoria della signora Di Guglielmo. Un’eroina, una donna fedele questa Teodora che il dialetto del paese rimodula in Dagarola. Commovente ritratto di donna innamorata che pazza di dolore si aggira sola, in orari in cui nessuno può vederla. Come vacca scampanata, come animale senza gregge, ha per unico conforto la supplica alla Vergine Incoronata. Il suono sferragliante, il timbro unico del western calitrano, è quello della Banda della Posta in esecuzione corale con voce tutelare di Giovanna Marini.
L’acqua chiara alla fontana
Ballata d’ispirazione semi trobadorica, ispirata al sonetto in uso a Calitri “Il nobile cavaliere”. Una fonte, un’acqua chiara, virginale, alla fontana. Un adescamento al suono dei marenghi d’oro, monete di altro tempo. Una storia di contrattazione d’amore che non manca di grazia e di terragna, popolana, carnalità. I toni cavallereschi sono anche nell’arrangiamento da ballata antica, provenzale, dei due violinisti francesi che l’hanno interpretata all’istante.
Zompa la rondinella
Ballata spontanea e viaggiante a cui in “cumversazione” ognuno aggiunge strofe diverse. Vi figura un certo Pescatamonte, prete senza vocazione, di carattere rissoso, che meritò lo stortonome dai “peccata mundi” che recitava sull’altare, e da quelli per cui aveva inclinazione nella vita. C’è il suono di altre fontane e piscioli, e soprattutto una certa Filomena, che per sè combina i guai, e a noi lascia la pena, ma ugualmente, “stringiamoci un'altra volta e diamogli fuoco al treno”.
Franceschina la calitrana
Le strofe riecheggiano dai tempi della costruzione della ferrovia, impresa seguente all’Unità d’Italia. Ancora portano per aria la forza di seduzione di questa popolana, “amica” d’ingegneri e capocantieri. I manovali che intanto “stanno sempre là”, esclusi tanto dal profitto quanto dal piacere, danno un tono epico–sindacale al brano.
Sonetti
Il sonetto è canto spontaneo a forma fissa, in metrica e melodia. È patrimonio vasto come un giacimento a cui ognuno ha aggiunto una strofa. Qui si riprende la forma melodica e una selezione di strofe che insieme compongono una storia d’amore; un amore bramato a cui per orgoglio, paura e avventura, non si è più trovata la strada per tornare.
Faccia di corno
Due sono i modi della serenata portata al balcone di notte: i rispetti e i dispetti. Le strofe possono esaltare l’amata o denigrarla, ingiuriarla, quando il frutto del sentimento si è marcito. Questa specie di canto a stornello riprende alcune delle strofe dello straordinario patrimonio delle serenate a ingiuria, che per il resto, parlano da sé.
Pettarossa
Lo stortonome della protagonista deve più alla generosità del petto che al colore del pettirosso. La forsennata canzone riecheggia nel testo di frammenti di figure tramandate nei sonetti e ha anch’esso il carattere dell’ingiuriata a dispetto.
Faccia di corno - L’aggiunta
Come uno che dopo essersi sfogato al vento riprende la via di casa, ma ancora sente di non averne dette abbastanza: ecco l’aggiunta. Altre strofe sotto la finestra a dispetto, alcune di carattere metafisico, come la pertica lunga, che a piegarla ne viene un ponte, sotto il quale può passare il vero amante. Diverse le ingiurie, stesso, momentaneo, finale: “Dal mio cuore ora, per sempre tu, te ne sei uscita”.
Nachecici
Versione “ranchera” de “I Maccheroni “, di Matteo Salvatore, capolavoro dinamitardo esistenzialista-paesano in cui troneggia il verso definitivo: chi muore muore, chi campa campa e un piatto di maccheroni con la carne.
Lu furastiero
Il campo raso dalla mietitura, i covoni, il vento. Il mietitore stagionale venuto da fuori, forestiero, che tutto quello che possiede si porta addosso. Il riposo di questo forestiero abbandonato al sonno sul cuscino della sua “sacchettola”, è un capolavoro lirico di Matteo Salvatore, qui transumato all’italiano.
Rapatatumpa
Versione de i “Proverbi paesani “di Matteo Salvatore, vademecum di saggezza e cinismo popolare. Il trapatatumpa simula la rullata del tamburo del banditore nell’accidia del pomeriggio. La sequela di queste strofe, nere come una pittura di Goya, fa da mantello alla sfilata della Morte. Una morte dentro la vita stessa, in cui anche il tempo ha bisogno di essere ammazzato. Il suono allucinato dei tamburi in questa versione viene da Tricarico, dallo straordinario plotone di ragazzi che seguono il maestro-profeta Antonio Infantino.
La lontananza
Quando si è lontani e soli, sperduti dietro alle greggi nella notte, quello che fa più paura non è il vento, non è il tuono, non è la tempesta o la penuria. È la lontananza. La lontananza il maggiore dei mali, nel nostro vivere, filo teso tra chi amiamo e chi ci ama.
La notte è bella da soli
Quando tutti se ne sono andati, o dormono per sempre, un solitario cantore nel paese abbandonato. Lo scalpiccio dei passi, il pisciolare delle fontane, un combattimento di cani e gatti, l’eco del verso del lupo mannaro che fa spaurare il cuore. Un sentito lamento di Salvatore per tutti i paesi in abbandono.
Brano a brano: Ombra
Ombra è la fronda generata dalle radici, l’intreccio dei rami che quella polvere ha prodotto. Ed è anche l’ombra il lato delle creature che non si chiariscono allo sguardo, il lato dei presagi, degli uccelli che volano la notte, il lato del racconto che desta meraviglia e inquietudine. E ombra è anche quella che lasciamo sulla terra andandocene.
La bestia nel grano
L’urlo del mietitore è più forte a mezzogiorno, l’ora che non lascia ombra sulla terra, l’ora in cui non c’è separazione fra vita e morte. L’ora del demone meridiano. A quell’ora bisogna rincorrere le bestie immaginate che si nascondono correndo e scuotendo il grano, per offrirle in sacrificio al demone, a risarcimento del lutto del campo falciato.
Scorza di mulo
I mulattieri sono sotto la guida di Ermete. Sono le creature liminari tra il mondo immobile degli stanziali e la mobilità sconfinata della notte. Non sono cavalieri però, sono soltanto mulattieri, hanno a che fare con bestie cocciute. Viaggiano nel buio per rubare legna dal bosco, per portare carichi, soggetti al pericolo, alle piene dei fiumi, ai dirupi, alle guardie, ai briganti. Quanti neri pensieri corrono nella muta testa di mulo di un mulattiere nella notte, sotto il suono ipnotico di zoccoli, che non galoppano mai, soltanto trottano al passo di un carico da condurre come una pena?
Il Pumminale
Il Pumminale è il mannaro nato nella notte di Natale, che con la luna piena si trasforma in lupo e va sporcandosi nel fango per trovare refrigerio. Questo Pumminale è versopelo, ha i peli dentro, e al richiamo della luna si trasforma non in lupo, ma in porco maiale. La storia di un meretricio notturno per incontrare il proprio demone e mettercisi d’accordo.
Le creature della Cupa
Molte sono le creature della Cupa per cui è meglio non affacciarsi ai pozzi, non uscire la notte, non esporsi al pericolo. Come in una ninna nanna su una culla fatta di rovi, ecco recitato l’elenco: la masciara, il pumminale, il maranchino e soprattutto la creatura della Cupa, neonata che ispira tenerezza, ma a sollevarla piega le gambe per il peso abbracciato, oro che il demone ha trasformato in piombo.
La notte di San Giovanni
È la notte dei presagi e delle comparanze. La notte in cui le ragazze cercano segni per capire chi accompagnerà la loro vita. E nell’acqua del bacile vedono l’ombra di Salomè ed Erodiade inseguirsi e accusarsi per l’eternità.
L’angelo della luce
Sempre Michele è venuto su una spada di luce. Ha spinto i contadini a lasciare le case, a mettersi in via, come pellegrini, per andare alla grotta nel giorno dell’arcangelo. Strada affollata quella dei pellegrini: ordini di mendicanti, simoniaci, guaritori, predicatori, accattoni, commercianti di fede. Anche l’angelo della luce per scendere in terra, come Adamo, ha dovuto sporcarsi i piedi.
Componidori
Dopo una divinità religiosa, una pagana. Come rendere divino l’uomo per un giorno, come mondarsi dalle funzioni corporali, privarsi del volto ed essere solo maschera luminosa che guida una torma di magnifici cavalieri che cacciano stelle per guadagnare la fertilità della terra, è quanto accade nella festa, nella giostra della Sartiglia. Ma è festa di carnevale, festa di sovvertimento dell’ordine. Quello stesso re si ubriacherà e verrà raccolto all’alba, fra gli ultimi.
Il bene mio
All’unione di nozze si arriva col velo, circondati, eletti e digeriti dalla comunità. Oppure da soli, nella clandestinità più buia, quella della fujuta. La fuga d’amore. Non c’è banchetto allora, c’è solo il ricovero dell’amore e il terrore di essere abbandonati dopo. Questo il soggetto di un’altra straordinaria canzone di Matteo Salvatore.
Maddalena la castellana
Storia terribile delle conseguenze di un amore clandestino. Episodi non rari in un mondo in cui gli uomini erano continuamente lontani per guerra, migrazione o lavoro. Con la ferocia di una descrizione cruda come la realtà, il poeta Canio Vallario ha composto questo sonetto sul tema di un aborto clandestino, sulla figura nera come la notte di questa vammana che una volta chiamata “mai indietro fa ritornare”.
Lo sposalizio di Maloservizio
La festa fonde la vita fino al punto in cui tocca la morte. La festa sfrenata, che dissipa ogni accumulo, la festa dei santi martiri del Ricreo. Il ri-creo, che rigenera l’uomo, lo crea nell’accoppiamento e allo stesso tempo lo consuma. Per questo in maniera fatale e simbolica, a Maloservizio, fu fatto lo scherzo di legare l’uscio della sua casa al cancello del camposanto. Il filo, fattosi stella filante, avvolse tutti nella festa, e raccolse anche i paesi del contorno nominati per nome e blasone. Rucche Rucche e Barbaje, è specie di formula magica da incantesimo. Il resto è tutto il folclore da sposalizio, cinque minuti di corsa forsennata condotta da una crepitante banda rumena unita alla postale. Il brano deve molto ad Aniello Russo per i blasoni e ad Armando Testadiuccello per la sostanza.
Il lutto della sposa
Ogni età dell’oro, l’infanzia del mondo, finisce si sa nel giorno della sposa. È il momento del trapasso a un'altra vita. Abbracciarne una nuova significa abbandonare quella che si è vissuta fino ad ora. Per il soggetto di questo brano ringrazio Adrian Paci.
Il treno
Forse è venuto un treno come un uccello, un giorno, a portarsi via tutti. A lasciare i balconi vuoti. Un treno viene, nero. In guerra come in pace. Ci sono saliti tutti sopra, anche un ragazzo che tutto quello che aveva era una grande scanata di pane. Se ne sono andati tutti così, su quel treno. Anche mio padre.
Note a sé stanti
Commenti di uno studioso di popular music
[e di un amico musicista]
Calitri – il paese dal quale proviene il padre di Vinicio Capossela e dove questo album sostanzialmente ha avuto origine – e Cairano – “il paese dei Coppoloni”, luogo dell’omonimo romanzo e del film di Capossela – distano una sessantina di chilometri in linea d’aria dalla costa tirrenica, dalle parti di Salerno, e una novantina di chilometri di strade tortuose percorribili in macchina in un’ora e mezzo circa. È più o meno la distanza dalla Bassa Padana al Mar Ligure; si fa prima ad andare da Milano a Genova. Calitri (530 metri sul livello del mare) e Cairano (770) sono paesi di una zona di collina e mezza montagna, fanno parte della comunità montana dell’Alta Irpinia, una terra dal clima semi-continentale, bruciata dal sole d’estate e a volte gelida d’inverno, lontana soprattutto dallo stereotipo dell’equazione Sud = Mediterraneo, e dunque anche dall’immagine convenzionale della mediterraneità. È mediterranea come l’interno della Spagna, come l’Erzegovina, come l’Epiro. È una terra di canti e di danze, certamente permeabile a tradizioni di luoghi vicini e lontani.
[Il mio ricordo, geograficamente approssimato, risale al 24 settembre 1972, a un Festival de l’Unità a Carife, sull’altro orlo del cratere che fu l’epicentro del terremoto del 1980. La visita di un gruppo del Nord, che cantava con quattro chitarre e una specie di batteria canzoni politiche modellate sul folk americano e sul country rock (fra quelle, “Tre fratelli contadini di Venosa”), era stata evidentemente dibattuta nella sezione: di solito alla Festa intervenivano star della televisione, e soprattutto orchestre da ballo locali, ma quell’anno i giovani della FGCI si erano imposti. Poi, ci avevano regalato una bandiera rossa con la scritta (in blu): “W la musica proletaria”. La conservo ancora. Quando ho raccontato l’episodio a Vinicio non mi è parso sorpreso.]
Canzoni della Cupa è nato in buona parte a Calitri. Alcune canzoni sono state raccolte o composte lì, e lì è stato registrato uno dei due cd che compongono l’album, quello intitolato Ombra. Tutto il lavoro porta i segni di quel Sud continentale, di quell’atmosfera più lucano-pugliese che campana, ma Polvere (il primo cd) è più aspro, ruvido: risultato, si direbbe, di un incontro con i temi e i materiali musicali ancora “crudo”, ma anche dell’abbondanza di brani tradizionali, adattati da Capossela, o di Matteo Salvatore e altri autori popolari (in tutto quattordici su sedici), mentre il rapporto si rovescia in Ombra, dove i brani non interamente di Capossela sono soltanto due. Curiosamente (la cosa è troppo netta per essere casuale) tutte le canzoni di Ombra – con l’eccezione della ghost track – sono in modo minore, mentre in Polvere c’è una grande maggioranza di canzoni in modo maggiore (dodici su sedici).[1] Polvere, dunque, si basa largamente su un lavoro di adattamento e riesecuzione di materiale tradizionale (in parte registrato dallo stesso Capossela, che ha incontrato informatori locali), mentre Ombra è il lavoro di un autore interprete, che ha preso evidentemente lo spunto dai contenuti e dallo stile del materiale tradizionale. Fino a un certo punto, cioè se si esclude l’adattamento linguistico di parte dei testi dal dialetto all’italiano e anche una certa libertà nell’accompagnamento strumentale, Polvere appare come un’operazione “classica” di folk revival, con ricercatori e interpreti urbani che riproducono materiale popolare rurale, ricalcando (con i limiti accennati) lo stile originale; Ombra, che al di là della differenza di modi è abbastanza simile – stilisticamente e nel suono – a Polvere, può anche essere interpretato alla luce dei concetti del folk revival storico, come il risultato del lavoro di un autore e di interpreti che hanno tentato di riprodurre il cosiddetto folk process, cioè calarsi nella cultura tradizionale al punto da assorbirne i metodi, il modo di creare: un’utopia a lungo coltivata dai protagonisti dei folk revival storici, negli Usa, in Gran Bretagna, in Italia.
[Quegli anni della “musica proletaria” erano gli anni culminanti del folk revival “storico” in Italia; poi, il folk – in qualunque delle molteplici e contestatissime accezioni – sarebbe arrivato anche a Canzonissima. Fra i protagonisti della fase compresa tra la fine degli anni cinquanta e i primi anni settanta c’erano Michele Straniero (quello che cantò “Gorizia” a Spoleto, durante Bella ciao, causando il noto scandalo) e Roberto Leydi (il curatore di Bella ciao, il promotore e teorico di un folk revival rigoroso, modellato sull’insegnamento di Alan Lomax e di Ewan MacColl, e poi uno dei primi etnomusicologi accademici in Italia). Tutti e due guardavano con scetticismo bonario i nostri tentativi di innestare alcuni aspetti del rock e di quella che non si chiamava ancora “canzone d’autore” sulla musica tradizionale e sul canto sociale italiano. Un po’ perché detestavano a priori la “musica di consumo” e consideravano Bob Dylan un “traditore”, un po’ certamente perché i nostri sforzi erano dilettanteschi e limitati dalla superficialità dell’ambiente discografico nel quale eravamo costretti a lavorare. Noi volevamo mettere una banda di paese che riprendesse alla fine il tema di una canzone, e loro ci piazzavano una competentissima sezione di fiati Dixieland, che con “Garibaldi” c’entrava come i cavoli a merenda. Che invidia per la libertà di cui gode Vinicio, per la possibilità di ricorrere a musicisti di tutt’altra generazione, a tecnici del suono liberi dai modelli sonori della radio e della produzione pop concepita per quella!]
In tutto questo le tecniche di registrazione hanno un ruolo molto importante. I nostalgici dell’analogico (che hanno molte ragioni, sotto vari aspetti) dimenticano quanto la dinamica largamente superiore e il ridottissimo rumore di fondo della registrazione digitale abbiano permesso di emancipare gli strumenti delle tradizioni popolari dal ghetto della non-fonogenicità. La coincidenza della “moda” della world music con l’emergere del cd e della registrazione digitale, e poi della registrazione su laptop, non è casuale. E come l’album Canzoni della Cupa dimostra, non si tratta solo di far emergere dalla nebbia i suoni di strumenti che ai tempi dell’analogico sarebbero stati ritenuti poco adatti a una registrazione di ampia diffusione (e quindi confinati al ruolo di documento per specialisti), ma anche cogliere tutte quelle sfumature ambientali che collocano voci e strumenti in uno spazio acustico credibile. Non uno spazio statico “da studio di registrazione”, ma un ambiente plasmabile, magari anche alle esigenze del folk process.
[A dire la verità, queste cose si intuivano già quarant’anni fa. Quando gli Inti Illimani, da poco esuli, furono mandati in uno studio a sedici piste, con un tecnico che qualche anno dopo avrebbe creato il suono degli album di maggiore successo di Battiato, ascoltando il risultato capimmo tutti che la “musica folk” (oggi forse si direbbe “la musica acustica”) non era obbligata ad avere quel suono sfuocato, timido, privo di dinamica e di spazio, al quale ci avevano abituato i dischi del folk revival italiano. Poi sì, sarebbe arrivata la cinica “noia mortale”, ma quei dischi di musica andina, e anche quelli della Nuova Compagnia di Canto Popolare, avevano aperto una strada per tutti.]
Nel panorama stereofonico di Canzoni della Cupa la voce di Vinicio Capossela sta sempre in mezzo, non proprio “cupa”, ma nemmeno squillante: è “dentro” quello spazio, non emerge al di sopra come vuole il canone radiofonico italiano (ereditato dalla Commissione d’ascolto della Rai di altri tempi, una specie di convitato di pietra permanente della nostra discografia, anche quarant’anni dopo l’abrogazione), un canone al quale anche molti cantautori si sono adattati. Non è (solo) una voce noncurante, trasandata, non imbellettata: è una voce adatta a quello che dice, la voce di uno che fa parte della scena. Capossela è uno degli esponenti più apprezzati della canzone d’autore, quindi è anche a quell’ambito che bisogna riferirsi per valutare le conformità e gli scarti che segnano il suo valore individuale: ecco, la voce di Capossela è lontana da quei toni da fratello maggiore più colto, se non da professore, che ha costituito per decenni il paradigma vocale del cantautore. Allo stesso modo, parallelamente, la sua scrittura (almeno in questo album) non è letteraria, non è “da poeta”: di immagini anche fortemente poetiche (ambigue, metaforiche, basate su tutto l’armamentario grammaticale, sintattico, semantico, prosodico del versificatore) nelle Canzoni della Cupa ce ne sono tante, ma Capossela riesce a farle passare tutte (anche quelle che sono evidentemente sue) come poesia popolare, e questo, oltre che un gran merito, è un grande sollievo.
Questo è un album nato sotto l’influenza di Matteo Salvatore e delle sue canzoni “a sé stanti” (come dice Capossela), cioè autonome, separate da altri generi e altre tradizioni. Il concetto di influenza, largamente sfruttato dalla critica e ormai dai siti web (che catalogano gli artisti sulla base delle influenze che hanno subito), viene di solito interpretato in senso passivo, come un’azione dell’artista, dell’opera, del genere che esercita l’influenza su chi la subisce. Ma è invece, come sostengono critici di un certo peso, un processo attivo, dalla parte dell’influenzato. Come sosteneva Harold Bloom, è l’artista, il poeta, che si sceglie i propri predecessori, non il contrario. È Capossela, qui, a scegliere che sia Matteo Salvatore il suo modello. Se ne potrebbe concludere, forse, che il giudizio di Capossela sulle canzoni di Salvatore – che sono “a sé stanti” – sia in realtà quello che vorrebbe si potesse dire delle proprie canzoni, quelle di questo album.
[E io penso che sia vero. Complimenti, Vinicio.]
Franco Fabbri
[1] A rigore, si dovrebbe parlare di modi al plurale: ci sono più modi minori, e più modi che hanno un carattere maggiore, con una terza maggiore fra la prima e la terza nota, anche se non sono “il modo maggiore” (ionio).
Per conoscere ulteriori stralci di riflessioni condotte da Vinicio Capossela riguardo l'album «Canzoni della Cupa», si rimanda a queste interviste disponibili sia per la consultazione, sia per il download su Internet Archive.