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La marina commedia di Vinicio Capossela

Un’antica metafora vuole che nel temerario navigare gli uomini trovino virtù e conoscenza, e che là, sullo spaesante mare, cioè lontano dalla terraferma e dalle ferme leggi degli uomini, meglio comprendano la loro esistenza e il loro destino.  

 

Marinai, Profeti e Balene ci porta con sé su quelle rotte estreme, ci dice che è tempo di mettere noi per l’alto mare aperto. Si tratta, beninteso, dello smisurato mare immaginario di Vinicio Capossela, quello che alcuni libri immortali hanno popolato di favole, spettri, voci e creature fuori scala.

E diconsi qui immortali i libri che continuano a sospingere i viventi verso mete che li oltrepassano. Figlio della lunghissima immaginazione occidentale, Vinicio è stato spesso il fededegno Ismaele di burrasche e naufragi.

Stavolta invece è Achab; come lui si volge alla sostanza mitica della sua vita e vi vede una verità intollerabile. Quale sia, lo dirò alla fine. Intanto, godiamoci la crociera.

Ecco subito gli oceani ottocenteschi di Conrad e di Melville, squassati da prediche, da incubi freddi, da volti gravi come suoni d'organo; ed ecco il mare rapsodico di Omero, con la sua aria da kolossal, il suo eroe illuminista e i suoi dei fenomenali.

Ovunque incombe l’oltremare dei presagi, attrazioni locali che influenzano le bussole di chiesuola di chiunque navighi nell’apparente anomia del finimondo. Ascoltiamo le voci veggenti di Tiresia, del carenato Padre Mapple, delle retrospettive Sirene. E quella del biblico Giobbe, col suo bell’acciaio martellato di dolore. Da sotto la superficie specchiante delle acque, risuonano gli abissi disneyani di Céline e sospira in apnea il meticoloso Polpo D'Amore.

E finalmente affiora Lui, il più grande di tutti, il più terrificante e il più richiesto: il mostruoso Leviatano, l'orrenda balena senza colore, incarnazione del male assoluto!

 

Ed ecco ancora le voci di Lord Jim, Billy Budd, Odisseo, Calipso, Polifemo, l’Aedo, le Pleiadi... tutte incastonate in una fantasmagoria di ballate, gighe, prison songs, canzoni da giaccone, da peplo, da uniforme, da scafandro, o in pezzi di pura evocazione, brevi e perfette colonne sonore della vita tra i flutti.

Anche i mezzi di bordo sono strabilianti: aulofoni, plettri atavici, flauti primordiali, lire cretesi, gamelan, ghironde, viole barocche, onde Martenot, macchine celibi, e cori, tanti cori, di tutti i tipi, le mille disincarnate voci del mare. 

Ora, non so voi, ma io non conosco artista che più si sappia mettere al servizio dell’opera di Vinicio Capossela. Che sappia cioè intonare lessico, strumentario, scelta dei compagni e persino luoghi di registrazione, alla “cosa in sé”.

Altri vi sapranno precisare i dettagli del Pequod caposseliano, del suo lento cantiere sulle rotte atlantiche e mediterranee, del maestro d’ascia, dell’armatore, degli ufficiali, dell’equipaggio. Io vi dirò invece che questa illusione marina di Vinicio deve pur avere un briciolo di vero se ad intaccarla non bastano le corrispondenze con la tanto strombazzata realtà.

Una metafora più recente ci vuole tutti su una stessa barca, per giunta governata dalle leggi marziali di pochi, pochissimi uomini.

I Marinai, i Profeti e le Balene di Vinicio, simboli di vita naturante e di epopea umana, ci dicono invece che siamo stati tutti mangiati dal mostruoso, plenario, capitale Leviatano.

E qui dentro, finché ce ne stiamo buoni buoni, non ci sarà né virtù, né conoscenza e nemmeno un cazzo di destino. 

 

Marco Castellani

I primi passi

«Se proprio vogliamo trovare, non una data, ma almeno un periodo da cui far procedere il lavoro vero e proprio – dice Vinicio Capossela – possiamo dire per comodità che tutto ha preso un’accelerazione al termine della tournée negli Stati Uniti durante la quale ho ultimato la registrazione dell’album «Da solo». In quel viaggio sono infatti venuto a contatto con un’America dove si avvertiva ancora la presenza di un’epica biblica, un po’ parente di quella di Melville o di Sherwood Anderson, che infatti stavo leggendo in quel periodo. Ricordo che di ritorno, facendo scalo a Londra presi una copia di Moby Dick in inglese».

 

Queste suggestioni hanno poi preso corpo in occasione dell’Andersen Festival di Sestri Levante (GE), che nel 2008 aveva come tema “la memoria dell’acqua”. Lì, nel corso di un concerto Reading dal titolo «Storie di marinai, profeti e balene», Capossela ha suonato su una chiatta in mezzo al mare nella Baia del Silenzio, inserendo in scaletta inediti nati espressamente per quello spettacolo, «passi di Moby Dick o della Bibbia parzialmente musicati o declamati in forma di “predica musicata”» Questo strano ibrido di canzone con narrazione si è poi sviluppato fino ad assumere la forma di alcuni brani del nuovo disco, come «I fuochi fatui», un pezzo che rompe il recinto della canzone presentandosi piuttosto come una sorta di evocazione musicale. In altri casi invece, sempre in quel contesto, l’autore ha messo in musica brani già presenti nelle pagine di Melville o da lì liberamente tratti, che nel tempo sono divenuti canzoni come «Il grande Leviatano», «L’Oceano oilalà», «Billy Bud», ma anche «Job», tratto dal Vecchio Testamento, e «Pryntyl» liberamente adattato da Scandalo negli abissi, un racconto di Louis Ferdinand Céline.

 

Lo spettacolo è poi stato replicato in altre occasioni e quando Capossela ha iniziato il lavoro di scrittura vero e proprio di «Marinai, profeti e balene», all’inizio del 2010, ha deciso «di conservare il nome del progetto allargandolo a tutta una serie di episodi sempre legati alla letteratura, ma più mediterranei, ancestrali. Innanzitutto Omero e i temi sollevati dalla figura di Odisseo». Sarà infatti l’immaginario omerico fino all’ultima avventura dell’Ulisse di Dante a costituire la spina dorsale del secondo cd di «Marinai, profeti e balene,» così come le atmosfere melvilliane hanno ispirato il primo.

Brano a brano

Primo disco

Il grande leviatano

Essere precipitati nel ventre dell’oscurità, nell’umido tepore del grande, capitale Leviatano dove non regnano né virtù, né conoscenza e nemmeno senso del destino. Cori solenni danno un tono da inno puritano a questa visione biblica ispirata al grande ammutinato Jonà.

Il cammino dell’oscurità, l’espiazione dal peccato, dallo spreco della vita, per innalzarsi dalla tenebra alla luce. Il brano sfocia in un veritiero canto di baleneria, “the whale fish song”, così che il coro, da solenne, si fa inno di uomini, canto di lavoro per uomini tali “da cacciarci la balena…”. Cacciarla anziché esserne ingoiati.

 

L’oceano oilalà (Rollin’ the whale)

Una giga da cantare, mentre anche le onde la danzano a pecorelle. Un coro per farsi coraggio di fronte alla tempesta, di fronte al capriccio del fato... “perché succeda quel che succeda ci resta sempre la consolazione che tutto andrà come è già stato scritto. Dunque che ci importa del tuono? L’oceano farà quello che vuole. Noi vogliamo del rum, date un bicchiere di rum!”

Il timbro e la festa da ballo sono forniti dai bretoni Tinuviel di Guillaume Souweine, dalla ghironda di Caroline Tallone e dal coro da ciurma capitanato da David Muldoon (il Tom Waits del naviglio).

 

Pryntyl

Musical fantasticante degli abissi, Zigfield Folies da bordello anni ‘30, gli anni in cui Céline ambienta questo soggetto per balletto o cartoni animati intitolato “Scandalo negli abissi”, la cui protagonista è la sirenetta Pryntyl, che una volta ottenute le gambe in cambio della coda non esita ad usarle, sgambettando e cantando in sirenese. Lo swing è assicurato dal gusto “Fiesta snack” dei grandi veterani Antonio Marangolo (sassofoni e arrangiamento), Jimmy Villotti e Ares Tavolazzi, riuniti in questa sessione venti anni dopo la registrazione di «All’una e trentacinque circa».

Il coro flautato del corpo di ballo delle sirene è intonato dalle elegantissime Sorelle Marinetti.

Vincenzo Vasi dà fondo a tutto il suo baule di suoni da animazione fantastica.

 

Polpo d'amor

Il polpo in cerca di compagna apparso nell’ultimo disco dei Calexico, che al movimento dei suoi tentacoli hanno dato la musica, si ripresenta immerso stavolta in un suono più liquido, accompagnato da sezioni di claroni e mellotron, al posto delle trombe mariachi, percussioni acquatiche, e spruzzi di inchiostro emessi dal tremolo della chitarra di Jimmy Villotti.

 

Lord Jim

La ballata al pianoforte avanza galleggiando sui gamelain e i “sepang” dell’oceano Indiano, sospinta dai cori, che, come in un western o in una tragedia, accompagnano l’eroe incontro al suo errore. Canzone sull’irrimediabilità dell’errore, sulla debolezza, sul carattere rivelato dal momento della scelta. Sull’errare, conseguenza dell’errore. Qual è “l’uno di noi” da cui ci si separa e quale quello da cui si viene accolti? “L’uno di noi” reso simile a Dio dall’aver mangiato dell’albero e per questo reietto in nome della conoscenza, oppure “l’uno di noi” conciliante e autoassolutorio in nome del “così fanno tutti”, quello che gira la testa davanti all’ingiustizia, al crimine, alla bassezza, perché a questo basta appunto la propria, comune, debolezza?

 

La bianchezza della balena

Un incubo reso in musica dalla chitarra allucinante che avanza nella tenebra dei ghiacci antartici che, come nel viaggio di Gordon Pym, si spinge fino all’estremo terrificante candore del bianco, all’abisso di nulla che si apre davanti alla macchia lattea del cielo. L’aspetto ambiguo e sinistro del bianco ha il suono innocente delle voci bianche. La chitarra, scura, satura e scandagliante è quella di Asso Stefana. Gli accordi si muovono in circolo disegnati dall’insonnia del concertatore Stefano Nanni, che ha collaborato alla stesura della musica.

 

Billy Budd

Un blues duro, una prison song, da tamburo di sentenza e catene da esecuzione. La chitarra acida di Marc Ribot, qui principe del Mali, e il contrabbasso di Greg Cohen, che si muove da rettile, come ad evitare i colpi d’incudine del tamburo del mastro d’ascia Zeno De Rossi, accompagnano al pennone dell’impiccagione i terrori e i desideri dell’ultima notte di Billy Budd. Billy, il bel marinaio, il gabbiere di parrocchetto, quello che nella nave sta più in alto, il più vicino al cielo, simbolo dell’innocenza che non è in grado di difendersi, esempio della fallibilità della giustizia. Volto immolato al timbro protocollare della maschera che sigilla l’“ordine costituito”, nella sua espressione più irrimediabile: la pena di morte.

 

I fuochi fatui

Il destino come la balena si riconosce dalla coda. Per quanto mandi sbuffi e segnali, lo si conosce solo quando è passato. Cori solenni accompagnano la manifestazione del soprannaturale, l’annunciazione e il compimento del Fato. Cosa ci spinge, come in un incantesimo, a obbedire, a soggiacere a un destino che appare premeditato dalla nascita del tempo? Gli stati d’animo si alternano in azioni e riflessioni, come tempesta e bonaccia, fino allo scontro finale, l’urto con la mascella del mostro bianco. Il destino imperscrutabile che nel momento del suo compimento non lascia dietro che l’indifferente silenzio del nulla che precede la nostra nascita.  La voce recitante di Ismaele, “il solo che - come nel libro di Giobbe - si è salvato per potercelo raccontare”,  è del principe de Las Tinieblas Daniel Melingo.

 

Job

Il lamento urlato contro il silenzio di Dio, contro la sofferenza senza causa e il trionfo senza merito, l’ammutinamento alla potenza senza giustizia che domina il nostro fato. Il Dio fuori misura dell’Antico Testamento, che deve nominare il Leviatano per mostrare la sua opera immensa, violenta e incomprensibile. La musica prende l’avvio come ballata salmodiante tra le pietre della terra di Uz e cresce nell’allucinazione elettrica e devastante incalzando domande cui non verrà data risposta. Resterà la consolazione della polvere e della cenere. L’ebreo errante Marc Ribot sostiene l’urlo di Job, accompagnato dalla tribù nomade degli Xilouris. Il testo è tratto dalla traduzione di Guido Ceronetti del «Libro di Giobbe».

 

La lancia del Pelide

Un madrigale sulla ferita che l’amore infligge, quella che solo l’amato che l’ha inflitta può curare. La lancia affilata è la lira cretese di Psarantonis che produce il lamento della ferita. Il balsamo della guarigione è nella viola d’amore, nella carezza piena di partecipata tensione degli archi in quartetto di Edoardo de Angelis.

 

 

 

Secondo disco

Goliath

La carcassa imbalsamata e ambulante della balena Goliath portata in mostra come un freak show. Il suono della gigantesca e fuori misura “Maquina Mecanica” brevettata dai barcellonesi della Francia Cica, i Cabosanroque, accompagna assieme all’organo di Barberia l’esposizione del mostro innocente che ancora si ostina a guardare, cavalcato dal cavaliere nano dell’Apocalisse. Il loro arrivo libera dal tabù del non uccidere e dalla legge. Libera la violenza, l’anarchico disordine che prelude al silenzio della dittatura. La verità finale fatta di ossa: il nulla, la nada.

 

Vinocolo

L’ubriacatura del ciclope messa a fuoco attraverso la lente avvicinante del vino. Il vino ematoso, il vino di Mèrone stuporoso, che domina e travolge cannibali e selvaggi, i barbari. Una canzone sull’avvicinamento al diverso, che ha il suono della grotta del ciclope. Il ciclope che “non somiglia agli uomini che mangiano pane, ma a picco selvoso che se ne sta in disparte dagli altri”. Gli echi, e i suoni dei versi gutturali che accompagnano l’incontro col “Nessuno da niente”, il piccolo uomo tessitore d’inganni che vince ed abbatte la maestosa, fragile, mostruosa innocenza della natura primigenia. Chitarre elettriche da Peplum, ance e flauti da baccanale di Mario Arcari, voce recitante in greco antico e respiro ritmico di Psarantonis.

 

Le pleiadi

L’armonia delle sfere studiate da Keplero. I movimenti celesti riprodotti dagli strumenti (arpa, archi, ondioline) che accompagnano come costellazioni la navigazione del pianoforte a vela, dal castello di pietra nel mare omerico fino alla parte di sotto del cielo, dove domina la croce del sud. Un brano plasticamente sospeso, che ruota intorno alla tonalità fissa del basso, per esprimere gli inganni e i simulacri generati dall’attesa. La distanza siderale che la vita pone tra i destini degli amanti.

 

L’aedo

Registrato a Creta, seduti in cerchio come in un “kolo”, con l’ensemble di famiglia dell’ultimo della stirpe degli aedi, Psarantonis, lo Zeus con la lira. Una ballata che viene dall’antichità, che attinge al tempo mitico in cui non esiste divenire. L’aedo non canta la sua storia, ma la storia di tutti. Il tempo della memoria custodito dalle Muse cui solo l’aedo cieco al mondo può accedere “come se avesse visto, come ci fosse stato”. Soffri e impara e imparalo a cantare è il compito prefissato per tramandare le sventure che danno gloria al canto.

“Aspettando un terremoto per unirci di nuovo, in un solo canto”

 

La Madonna delle conchiglie

Al tempo in cui gli Dei ancora abitavano tra gli uomini, ogni naufrago, ogni straniero, doveva essere ben accolto perché in lui avrebbe potuto celarsi un Dio. Tanto più una statua di legno, restituita dal mare, con la pelle dipinta di un altro colore. Allora come oggi è più facile essere accolti come Dio che come uomo. A un Dio si ha sempre qualcosa in più da chiedere, e non ha bisogno di permesso di soggiorno o passaporto.

Ispirata alla santa Restituta venerata in Ischia, e alle tante Madonne protettrici di naviganti, questa marcia da carillon di automi è accompagnata da un’ensamble di grandi conchiglie suonate dallo specialista Mauro Ottolini, dal clavicembalo barocco e da un corpo bandistico ondeggiante di processione su barche.

 

Calipso

Gli incantamenti di “colei che nasconde” e sottrae alla vita, il tentennamento in bilico tra lo sparire, il restare, l’indugiare, sono i temi di questo calipso in setticlavio, in cui i continui cambi di tonalità seguono la mutevolezza dello stato dell’animo dell’uomo che durante il giorno piange su uno scoglio, come un lavoro, e la notte gode dell’indugio e della festa dei sensi, la cui ebbrezza non può sopravvivere al mattino. L’incantamento lussureggiante dell’isola dove non cambia mai stagione, la cui vegetazione frondosa da isola dei morti è data dalle percussioni di Mauro Refosco, il coro delle ancelle è delle donne sarde di Actores Alidos. La ripetizione circolare e reiterata della musica vorrebbe alludere alla tentazione dell’immortalità. Quell’immortalità che si acquista bevendo dalle coppe l’ambrosia, che forse è soltanto “dimenticarsi degli uomini e che gli uomini dimentichino me…”

 

Dimmi Tiresia

Una ballata ancestrale per scavare una fossa nella terra, versarci del sangue, fare apparire i morti e interrogarli, al suono delle stampelle ritmiche della marimba e delle ossa. La lira di Psarantonis provoca l’apparizione del grande indovino a cui viene chiesto se è meglio sapere o non sapere. Se la nostra donna ci è fedele, se è bene partire o tornare. L’indovino paga il prezzo del suo conoscere con la solitudine a cui è relegato. “La conoscenza è distanza che separa, quello che io ora so, quello che tu non sai, questo non si potrà colmare mai.”    

Il suono dei plettri, il vibrare severo dei lauti e della chitarra accompagnano questo viaggio rivelatore per arrivare a comprendere che la conoscenza è niente senza fede. Il vaticinio finale sillaba un destino che termina con un’impresa incomprensibile e informazioni che aiutano soltanto a riconoscere l’enigma.

 

Nostos

Cori gotici alti come onde d’oceano, accompagnano la citazione dell’Ulisse infernale, per fare risuonare ancora il suo ammonimento sferzante: “Fatti non foste a viver come bruti”. Esortazione solenne per vincere il ritorno, per lasciarsi alle spalle i recinti del conosciuto, per affrontare il folle volo di ogni nostra nuova vita.

 

Le sirene

A volte appare la cosa intravista, la “perla” che colma la distanza infinita e appena visibile all’occhio, come l’arcobaleno, che si vede, sì, ma la cui pentola d’oro che sta alla sua base non è ancora stata trovata. Questa distanza, in cui sta il mistero del compimento della nostra vita, ce la fanno sentire le sirene, che amano cantare nelle notti insonni, nelle notti di birra in cui non arriva più l’alba, quando la vita ci si ripresenta per intero. La loro seduzione sta nel metterci davanti tutta la nostra vita, come è stata, come avrebbe dovuto essere. La vita che ci tolgono mentre la stanno cantando.

Le sirene hanno la voce delle onde Martinot suonate dalla specialista francese, l’ondiste Nadia Rastimandresy, dalla commovente viola “Maggini” di Danilo Rossi, e del canto soffiato sul limite del niente del grande sogno della vita che l’ha contenuto.

Il Seiler d'altezza

In musica, come in cucina e in marina, si fa con i mezzi di bordo. Questo è il pianoforte che ci siamo scelti. Si chiama Seiler, che è quasi sailor… È venuto da una montagna, ha novant'anni e mai un lifting. Ha assi come di barca e un complesso intreccio di corde, di legni e di sbarre, come le sartie di un veliero.

È grave. Ha un suono più ricco sui medio-bassi. Sulla parte alta non è sonoro. Le note muoiono subito e una volta che ci si adatta si ha come la sensazione di aggrapparsi alle scalette che portano alle parti alte, velacci, velaccini, le zone del gabbiere di parrocchetto, quegli scalini che scorrono poco, destinati a farci da scaletta d'appoggio. Per salire il resto ce lo devi mettere tu. Lo spirito, la vista, il respiro. Dunque ben venga il piano a cassa sorda sugli alti. È un veliero. Ha la forma arrotondata e maestosa di un transatlantico di legno. È nero, consumato come le incrostazioni del Pequod, e ha la voce scura che serve per queste canzoni melviniane. La bianchezza della balena, l’albatro...

Ci abbiamo costruito un piccolo teatro intorno, in una sagrestia di una cattedrale abbattuta, dove si celebrarono i fasti di una delle più ricche corti rinascimentali. Rovine di bellezza a picco a ottanta metri sul mare.

 

L’aristocrazia, il distacco dello spirito si ottiene con l’altezza, non con la recinzione.

 

Isolarsi qui sopra ci mette in un altro paese, a tiro dei gabbiani. La sagrestia è stata guarnita di tende da cinema, di tessuti spessi e separé sonori, fatti di sacco di iuta. Il mare sotto, il suo basso continuo incessante, ci lambisce in questi giorni di inizio Ottobre. Tira uno scirocco accanito e noi tutti siamo a tiro dell’inconveniente, dell’avaria e del vento in poppa, tutti attenti al particolare, per giungere all’aria più ampia. Concentrati sul suono di un tasto, intenti a costruire canzoni al telaio, come un imbarcazione a cui si dovranno applicare tavole, scalmi e vele.                

Rolling the whale!

Molti degli strumenti di registrazione sono a valvole, ci impiegano ore a scaldarsi e lavorare bene, e così anche il piano e così anche noi. Ci vuole tempo per adattarsi, per accomodarsi al piano e altro tempo ci vorrà per varare le canzoni ma tutto il tempo che ci vuole lo prendiamo, senza stare fermi. Tanto ne metti, tanto ne trovi.

È necessario cantare queste canzoni correndo dei rischi, non padroneggiandole bene, restituire il momento del rischio e della navigazione, non raccontare di un fatto avvenuto, ma raccontarlo in presa diretta, mentre si sta lottando per non annegare. Il momento della scelta, interpretare segnali, presagi e realtà.

 

4 ottobre 2010

Vinicio Capossela