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Settembre 2008. Appunti sul disco

Avevo un po’ di conti da regolare, questioni personali, perché questo, a differenza degli ultimi lavori, non è un disco mitologico o di fantasia, o di storia, geografie e scienze... Non c’è il coup de cannon di «Bardamu», ma ci sono le regole d’ingaggio con cui si uccide sull’Eufrate. Non c’è l’America leggendaria del West, ma quella desolata di oggi, e dove anche avevo qualche conto in sospeso. Ci sono questioni di carattere. Mettere a fuoco quanto si è stati incapaci di essere sinceri, quanto ci si sia sempre protetti dietro delle ombre e quanto si abbia brancolato tra esse nel cercare l’altro, più per desiderio muto che per consapevolezza. L’altro che esiste come tensione o come separazione, e che, per amplificazione, ingigantisce le nostre ombre. Ma questo non è un disco malinconico, non c’è piagnisteo. Le lacrime, quando ci sono, sono asciutte e calcinate dal tempo, così da poterci costruire sopra. C’è una visione fatta di consapevolezza e a volte anche di epica.

 

E poi diversi temi personali, come quello della clandestinità, per esempio, questa tendenza a nascondere la propria vera natura e a doversela svignare per Essere, per iniziare ad affrontare quel cammino. E anche i fuochi della gioventù ci sono, ancora prossimi, da sentirne il calore. C’è l’amore, quello amorevole, che quando è perso lascia orfani, e la strada nuda dallo sguardo e ci si può affidare solo al «Paradiso dei calzini» per avere qualche possibilità di ritrovarlo.

Oppure si può sperare di incontrare «Il gigante e il mago», un genere di miracolo che può accadere solo quando si è rimasti da soli, appunto, e in una volta e in una stanza, si è diventati grandi... Le creature che hai dentro fin da piccolo, e che la strada a volte ti regala se sei pronto per l’incanto. Creature che camminano nel buio e cercano di tenere accesa dentro la fiammella della loro innocenza e della loro umanità, tra apparizioni disumane.

 

E c’è anche modo di omaggiare il buon umore invincibile, le camicie col taschino da tabacchino, il fischietto di Vincenzino Cinaski, i quattro passi nel quartiere in una giornata di sole trovata da solo, in modo da non dovere ringraziare nessuno, se non il sole stesso. Fischiettare alle ragazze e però rimanersene al tavolo seduto, non inseguire niente, né botole ne imbuto... Diventare grandi portando con sé tutto il piccolo, tutto il sogno, e tutto il salvabile insomma.

Tutto questo è fantasticare. Invece, la morte, nella guerra per esempio, non ha niente di epico. È solo un’esplosione quando non te l’aspetti e pezzi di carne e macelleria. Nient’altro. È questa crudezza la violenza, ed è impersonale perché mediata da qualche strumento, da un comando a distanza, da un radar, da un cannocchiale di precisione. Questa è la canzone «Lettere di soldati», la fine di ogni epica. L’unica cosa non meccanica è quel momento più grande delle vite, quando la vita si allarga in un pensiero e cerca di raggiungere i tuoi cari e l’universo che per te non è niente, senza di te. Ed è il momento in cui si scrivono le lettere d’amore, l’unica cosa un poco grande in un mondo che ancora costringe alla meschinità di continuare a uccidersi, piccoli e armati.

 

E infine l’America, che sventola la sua resa nel silenzio, il grande silenzio senza corpo d’America. La nazione nuova che si era posta a guida del mondo è un grande magazzino, un grande mall che trasforma tutto, le vite dei suoi cittadini per primi, in mercificazione, in grande distribuzione. Nel ribollire apparente dell’informazione è il suo silenzio senza rimedio. Sventolano sempre bandiere in America, spesso nel silenzio, in ogni angolo ce n’è una. Bandiere che sembrano troppo chiassose mentre sventolano sui funerali dei corpi tornati dall’Iraq, sui campi verdi perfettamente rasati dei cimiteri. Sventolano nel silenzio,  rotto dalla fanfara della banda che suona sempre da Salvation Army.

 

Musicalmente il disco è costruito in maniera quasi filologica. Il piano e la voce sono da soli, al centro, e intorno, a fargli a volte da coro a volte da ombre, da tintinnio, da ambiente, da aria e da cappotto, una serie di strumenti, a volte inconsistenti (bicchieri, theremin, sega, toy piano, riverbero degli archi) a volte fantastici (il Mighty Wurlitzer, l’optigan, il mellotron) a volte corali (le ance da “Salvation Army”, da “Esercito della salvezza”, gli ottoni), i fiati che si dispongono insieme alla grancassa attorno al  piano, assentono, scuotono la testa e gli danno ragione.

A coronamento di questo lavoro, quando il disco era già finito e missato, è venuto un viaggio verso il West dell’America. In quel viaggio la lettura dei «Racconti dell’Ohio» di Sherwood Anderson, tutta quell’America biblica e rurale fatta di piccoli villaggi e di pulsioni nascoste, una specie di «Spoon River» dei vivi, mi ha costretto a scrivere un ultimo pezzo tra le camere dei motel, mentre mi dirigevo a ovest. L’ho chiamato «La faccia della terra», perché solo quando si è soli si usa dire “sulla faccia della terra”. Una volta arrivati a Tucson, il brano è stato registrato così, al suo primo vagito, assieme ai Calexico e alle loro camicie a quadri. Il suono e il registro letterario di questo pezzo sono piuttosto diversi dagli altri: ci sono ruggine, chitarra e polvere, e un testo che parla di solitudini e di intrecci tra gente dai nomi biblici,

 

di tutti questi uomini e donne che continuano a intrecciare le costole tra loro e a lasciarsi ciechi storpi e soli... Insomma suona diverso in un mio disco per la prima volta organico e quasi circolare, però è come lo sbuffo della balena: è fuori, nell’aria, ma viene dalla balena. Dunque l’abbiamo tirato a bordo, ispido e pieno di polvere com’è.

 

I collaboratori si sono fatti trovare da soli. La produzione è stata, per la prima volta, integralmente presa nella sua responsabilità. Per meglio equipaggiarci ai rovesci degli eventi abbiamo provveduto a chiamare “La Cupa” la società di produzione che legalmente ha consegnato il lavoro, e a capitanare questa impresa è stato Luca Bernini, che ha avuto tutta l’incoscienza e la temerarietà di chi non è del mestiere per combinare le cose al meglio, (passando dal giornalismo che si occupa di recensire cose già avvenute, all’accadimento che provoca quelle recensioni), facendosi guidare soltanto dalla passione e dall’amore per questo lavoro. Una collaborazione che, come i frutti più buoni, si fa cogliere dopo anni di maturazione.

 

Guardando molto vicino si è fatto poi trovare un co-produttore musicale bell’è pronto, preparato dal suo gusto e dalla sua passione. Alessandro “Asso” Stefana, nel fiore della sua giovinezza, conosce strumenti, ha idee su come usarli, ed è innamorato dello studio di registrazione. Potrebbe passarci dentro la migliore quantità della sua vita (io non sono di quel club, e dopo qualche ora nello studio vengo obnubilato dall’infinitezza delle possibilità). Di quel club di anfibi dello studio registrazione fa parte anche il grande Taketo Gohara, il tecnico del suono supremo, che tratta l’emozione con la cura del tagliatore di sashimi, senza far perdere nulla dell’aroma e poi, oltreoceano, un vero fanatico del recording studio, tanto da essersene costruito uno a sua immagine e somiglianza, il Brooklyn Recording, dentro cui si muove come un granchio sulle sedie a ruote, seguendo i cursori con le sue grasse amorevoli dita, come una cucciolata alla prima corsa. Si chiama Andy Taub ed è l’ingegnere del suono di fiducia di JD Foster. JD lo conosco per avere prodotto i bellissimi dischi dei Cubanos Postizos di Marc Ribot, che me ne ha sempre paralato con grandissima stima. È il migliore e non è così impegnato, booked, come gli altri. Inoltre è una persona speciale. Rassicurante, piena di passione, e nel suo suono ci sono le vastità americane, le strade e le camere d’albergo vuote.

Sempre piuttosto vicino si è fatto trovare uno straordinario arrangiatore, giovane, inquieto ed inquietante. Abbiamo iniziato il lavoro la notte di Halloween, ed essendo già lui un personaggio uscito da un film di Tim Burton, ha saputo preparare subito una zucca vuota con la candela dentro e gli stuzzicadenti al posto dei denti. Per giorni abbiamo fatto in tempo a vedere come diventa vecchia una faccia di zucca: gli si abbassa la faccia sui denti e da zucca che era, degna di una carrozza, diventa una strega. Enrico “Keith” Gabrielli poteva essere il cocchiere di quella zucca, e come tale ha scritto arrangiamenti di archi e di fiati cuciti su misura, che sanno mettere in luce e in ombra le parole e che danno il sostegno all’emozione là dove finirebbe naturalmente.

 

Ci sono strumenti che meritano una storia. Il pianoforte Tallone per esempio, registrato nella casa del suo costruttore per opera del nipote acquisito, Jean Philippe Caron. È un pianoforte che ha una storia così bella che si era pensato di registrare tutto il disco con quello, ma per motivi letterari ci siamo limitati a impiegarlo solo ne «Il paradiso dei calzini».

Abbiamo però usato diversi tipi di pianoforte, anche se il mio preferito è assente (il mio vecchio Duysen del ’28, un modello molto simile al Bechstein di quell’epoca). «Una giornata perfetta» per esempio, impiega un bellissimo piano da tavolo Baldwin Acrolyne, molto adatto al saloon o allo straight piano di un tempo (mentre guardavo la finestra di fuori, e il cielo, dicevo: «Adesso ci devi mettere dentro tutto il buon umore di questo cielo azzurro e tutti gli scherzetti di Thelonious Monk»), e poi un modello Steinway del 1905 in cui si sentiva tutta la vecchia America delle ferrovie, degli hobos, tutto Fitzgerald, per «Dall’altra parte della sera», e poi il bellissimo Steinway Gran Coda degli studi Officine Meccaniche restaurato di recente, con il suo suono epico e rotondo.

 

Ci sono poi strumenti autocostruiti come il cristallarmonio di Gianfranco Grisi, che provoca la sonnolenza e l’ipnosi immediata, e alcune partecipazioni speciali: Mario Brunello, il violoncello lancinante di «Lettere di soldati», il campione dell’assenza Pascal Comelade, che ha inviato dai Pirenei la registrazione dei suoi leggendari strumenti giocattolo per «Il paradiso dei calzini», Frank London, il trombettista mascherato che assieme a Matt Darriau (entrambi in forza ai Klezmatics) ha fatto da piccola orchestra della salvezza.

 

I brani che ho scritto sono tutti miei ad eccezione dell’ultimo, «Non c’è disaccordo nel cielo», che riprende il titolo di un vecchio inno composto nel 1914 da Frederick Martin Lehman, uno specialista del genere; ne ha scritti molti, armonizzati spesso dalla figlia. Pare che abbia scritto questo brano mentre si trovava in gravi ristrettezze economiche, forse per quello ha alzato gli occhi al cielo e ha pensato, almeno lì non ci sono disappointment, né canzoni in mi minore. Ho ascoltato questa canzone nella magnifica versione di Jimmy Scott presente sul disco «Heaven». Il testo non è la traduzione dell’originale, ma il mio modo personale di sentire l’argomento. Un cielo a portata delle preghiere di tutti, che forse ci accoglierà e forse si farà trovare vuoto. Ma dove finiscono di sicuro tutte le lacrime di quando ci siamo sentiti migliori.

Settembre 2008

Vinicio Capossela