Non esattamente un disco natalizio...
...Un disco per la festa. E per le malinconie di ogni dopo festa.
Questo disco ha una storia lunga. Per quella strana euforia mista a malinconia che ci coglie tra la fine e l’inizio di ogni anno, abbiamo iniziato a fare concerti nel periodo delle feste a partire dal 1999 e da allora si è continuato ad ogni dicembre per 21 anni. C’è voluto il confinamento pandemico per trovare il Natale libero da dedicare alla sua registrazione.
Sono canzoni solstiziali, di coriandoli inzuppati di birra, di lettere d’amore e di resa dei conti in quel periodo dell’anno in cui si rimbalza nella vita come dentro a un grande flipper. Ci sono attrazioni, impennate e cadute, c’è la grande ruota che gira e come le braccia dei mulini a vento, a volte ci lancia verso le stelle e altre nel fango.
Il titolo Sciusten Feste n.1965 lo ha scritto a penna Vito, mio padre, anni fa su un foglio di carta arancione ed è un ricordo a orecchio della festa con luna park più smisurata vista nella sua gioventù ad Hannover, dove è tradizione ospitare i più estesi accampamenti di Schützenfest, questo chiassoso raduno in cui si tira al bersaglio, si elegge un campione, si beve moltissimo e la musica non è un granché.
All’apparenza è una di quelle ritualità pittoresche e anche un po’ inquietanti del mondo germanico, però a indagare bene nel sostantivo Schutzen c’è anche la radice del proteggere. Proteggere, riparare, difendere ciò che si ha di più caro. E difendere la nostra innocenza in un mondo che la nega, si può misteriosamente fare anche salvaguardandola in cose di poco valore come le lucine, i coriandoli, le canzoni o i bersagli. Difendere la festa è un po’ come salvare il gioco e l’infanzia del mondo.
Bersaglio, centro da tiro, ruota panoramica, disco di vinile: sono tutti cerchi che dal centro si allargano, come le onde quando si tira un sasso nell’acqua. Queste canzoni sono quel sasso.
Tre sono state scritte appositamente, tutte le altre sono invece canzoni d’importazione che per assonanze diverse, per me hanno a che fare con la festa.
C’è il pezzo del ringraziamento universale, il Dankeschoen di Wayne Newton che diventa Grazieschoen.
C’è anche Charlie, la mia prima cover di Tom Waits, Christmas card from a hooker in Minneapolis (da Blue Valentine): la lettera di Natale da Minneapolis di una prostituta, che, in questa versione, dal Minnesota torna in famiglia a Scandiano.
Ci sono due inni della tradizione anglosassone. In apertura, Abide with me, del clerico anglicano scozzese E.F. Lyte, musicato dall’organista inglese William Henry Monk. Un brano più recitato che cantato, che nell’adattamento di Jacopo Leone diventa Sopporta con me, un invito-colloquio col Padreterno, una esortazione quasi confidenziale a scendere in strada, per sopportare insieme la difficoltà del cammino. E poi la dickensiana carola di Natale, God rest you merry gentlemen. Una melodia da severo testamento che va a sostenere le parole di “conforto e gioia”, in un testo modificato per evidenziare la contraddizione insita nella celebrazione dello spirito salvifico della natività al tempo dei reticolati che cingono la fortezza Europa.
C’è Santa Claus, il portatore di doni, che come un qualsiasi addetto alla logistica di Amazon, viene spinto al suicidio perché non riesce a consegnare in prime time gli oggetti dei desideri che intanto vanno moltiplicandosi assieme alle rese.
Il sogno disneyano del “Libro della Giungla” I wanna be like you, diventa un competitivo Voglio essere come te. Anzi, Come e più di te!
White Christmas è Bianco Natale, rock ballad gridata al cielo per reclamare l’innocenza perduta della neve, un’invocazione al silenzio per guarire il dolore.
Jingle bells è la festa di Campanelle, il più famoso jingle natalizio qui ripreso alla maniera di Lou Monte, con cori delle Sorelle Marinetti.
Il mondo dello swing italoamericano viene omaggiato, oltre che nell’episodio del jungle book di Louis Prima, anche in Agita, la hit del Nick Apollo Forte di Broadway Danny Rose di Woody Allen (per me il più bel film sul mondo dello spettacolo) con le parole cambiate, non per lo sbarco lunare, come nella pellicola, ma per allungare la lista delle pietanze della stramangiata delle feste. Aggita, che è insieme disturbo gastrico e atteggiamento esistenziale.
E poi Eh cumpari, ribattezzata Il friscaletto, altro classico dell’Italia del Sud anni ‘50, emigrata negli Stati Uniti e finita ne Il padrino, ripresa dai più svariati interpreti, da Dean Martin a Julius La Rosa a Renato Carosone, e ora anche dalla nostra “orchestrona”, per presentare gli strumenti con tutti i nomi virati al femminile.
Per non abitare solo il mondo italo americano, ma omaggiare anche quello degli italo germanofoni - al quale cinema, musica e letteratura poco hanno dedicato - oltre alla già citata Dankeschoen, ecco la canzone che dà il titolo al disco: Sciusten feste n. 1965, una specie di pezzo dei Pogues in un luna park bavarese. Come in una matrioska ci si ritrovano dentro pezzi della grande Heimat del Deutsch Mark dell’infanzia: Rapunzel, la casa di biscotti di Hansel e Gretel, e il meraviglioso Struwel Peter del dottor Hoffman.
E poi, eins neun sechs fünf… I numeri 1-9-6-5 contati alla maniera di Giochi senza frontiere, i nomi delle attrazioni, la citazione della trish trash polka da Capodanno di Strauss e infine l’immorale verso Alles hat ein Ende, nur die Wurst hat zwei! (tutto ha una fine ragazzi, solo il wurstel ne ha due).
Man mano che l’età avanza bisogna prendere confidenza con i nomi propri di tutte le ossa, così da una costola di scheletro nell’armadio abbiamo tirato fuori Il Voodoo mambo osteopatico… che intanto è diventato “E ancora mambo”, “quantunque mambo”, “per sempre mambo”, il mambo esorcizzante da ballare nella notte delle zucche vuote. Del resto, è con la festa dei morti che iniziano le feste invernali, con le calaveras messicane del dias de los muertos, con la marimba ad ossa che fa resuscitare gli spiriti e li accompagna verso lo zenith dell’oscurità solstiziale.
E per concludere, il punto di vista di chi le feste non le sopporta proprio. Il Grinch che in ognuno di noi ha l’avversione per coriandoli, socialità forzata e costrizione alla baldoria per convenzione.
Il guastafeste, la cui contrita soddisfazione è rovinare la festa agli altri. Il guastafeste è lì per chiudere il ritrovo con un bel “Voi e la peste delle feste, io vi concio per le feste... E basta feste!”
Sono in molti quelli per i quali le feste sono il periodo peggiore dell’anno. Ma nel guastafeste c’è qualcosa di più profondo: c’è il volere romper la inlusio del gioco, lo smascherare la convenzione della festa e mandarla in frantumi. D’altro canto, la festa ha senso solo in quanto sospensione del tempo ordinario ed è dunque quanto mai necessario qualcuno che ci metta la parola fine, di modo da poterla riavviare ciclicamente un’altra volta ancora, e lui sta lì per quello, per dare termine all’inlusione.
Forse per la possibilità di potere rimandare di anno in anno - visto che le feste, per disgrazia o per fortuna, tornano tutti gli anni - ci sono voluti vent’anni per registrare questo doppio disco in vinile. Anni in cui la pratica dei concerti ha affinato il repertorio, ma ne ha impedito la registrazione. Concerti strabordanti, che hanno celebrato la festa e la hanno realizzata. Concerti in cui si è creata una comunità, si sono formate famiglie e altre si sono frantumate, concerti che hanno avuto a che fare con la sostanza della vita, in cui tutti, qualsiasi momento stessimo attraversando, abbiamo trovato una seconda famiglia. Particolarmente nel locale in cui si è creata una tradizione: il Natale al Fuori Orario, locale storico affacciato ai binari della ferrovia tra Reggio Emilia e Parma in località Gattatico. Per celebrare questa storia unica, assieme al disco è prevista l’uscita del film documentario e di finzione Natale Fuori Orario, costruito sulle riprese effettuate da Gianfranco Firriolo durante i concerti di Natale tenuti nell’arco di quindici anni, dal 2007 al 2023.
Nel dicembre 2020 la grande sospensione dell’isolamento pandemico ci ha portato a ritrovarci allo studio Esagono di Rubiera (RE), un luogo mitologico e fiabesco. Con la banda storica riunita e distanziata, abbiamo registrato suonando praticamente dal vivo, in diretta, ognuno in uno spazio isolato, a occhi chiusi, ascoltandoci in cuffia. I pezzi venivano a memoria, come fossimo appunto nel Natale al Fuori Orario.
La banda era quella storica: le due ance d'attacco (sax baritono e sax contralto) dei meravigliosi Michele Vignali e Achille Succi, le bacchette forsennate di Mirco Mariani travestito da albero di Natale, le diavolerie di Vincenzo Vasi, l'organo vivo straripante di Teo Ciavarella, il contrabbasso a legna di Glauco Zuppiroli, le chitarre di Giancarlo Bianchetti e Alessandro “Asso” Stefana. E poi gli ospiti speciali: Marc Ribot, Greg Cohen, Sorelle Marinetti.
Le registrazioni sono avvenute a intermittenza a partire dal giorno del mondo alla rovescia (28 dicembre, la festa dei santi innocenti), all’ultimo di Carnevale del febbraio 2021. Poi la pandemia è proseguita, e poi la guerra, e poi sempre nuove e più gravi urgenze hanno rimandato la pubblicazione.
Proviamo a farlo in questo 2024 un po’ perché, per citare Piero Ciampi, “è Natale il 24”, un po’ perché sono 25 anni dal primo concerto delle feste (Fuori Orario 1999) e un po’ perché se aspettiamo il corso degli avvenimenti non ci sarà niente da festeggiare per un bel pezzo. Lo pubblichiamo dunque in maniera propiziatoria. Come il cane che sta in copertina, che non può abbracciare, ma mettersi con le zampe avanti, sull’attenti, in segno di festa. Una festa fatta anche un po’ per mestiere, con un cappellino di traverso, con un collare di coriandoli con i colori dei regoli, quei meravigliosi parallelepipedi ad altezza variabile che servivano per imparare i numeri.
Come gli Schutzen, i tiratori da luna park, lo pubblichiamo ora, per difendere con fucili giocattolo la nostra innocenza, e anche per guastare un po’ la festa a quanti ci stanno facendo la festa.
In maniera propiziatoria. Sperando che sia di buon auspicio.