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Aspettando «Il ballo di San Vito». Maggio 1996

Andare da Giancarlo per lui è scendere nel “Grotto”, scendere ai muri (versione autunno-inverno) è scendere all'Inferno

Lui ha trent'anni, si chiama Vinicio Capossela e in quel tratto di terra dimenticato da Dio, ma non dagli Assessori, pare trovarsi piuttosto bene. Nato ad Hannover da genitori meridionali, vissuto prevalentemente in Emilia, Vinicio con il Piemonte, e con Torino in particolare, ha un legame del tutto speciale. Qui lui è un piccolo culto, i suoi concerti sono sempre strapieni (memorabili quelli al Folk Club in trio con Titi e Lazzarini), le sue canzoni girano con una certa frequenza sui giradischi inumiditi dal Po a scaldare cuori, per definizione, refrattari. Questa Torino si è innamorata della sua poesia e di quelle atmosfere elettro-alcoliche che, disco dopo disco (ne ha fatti tre), sono sempre più precise e raffinate. 

 

Ma il disco migliore è sempre il prossimo ed è proprio di questo che intendiamo raccontarvi. Il ballo di San Vito, inteso come quella patologia che ti impedisce di stare fermo, vedrà la luce in novembre e sta nascendo in questi giorni negli studi Fonoprint di Bologna. Come potrete notare mancano ancora parecchi mesi e queste piccole anticipazioni che state leggendo vanno considerate come un regalo del tutto esclusivo per i lettori di questo fogliaccio al bourbon/ginger ale.

Iniziamo dagli acquisti, due musicisti che, come si dice in gergo calcistico, fanno la differenza: Evan Lurie alla prodizione e agli arrangiamenti, e Marc Ribot alle chitarre. 

Evan Lurie è il fratello del più famoso e rovinato John, attore e musicista della New York avanguardista (Stranger than Paradise e Down by Love di Jim Jarmush, Blue in the face e leadership di Lounge Lizards), meno figo e appariscente del fratello, ma molto più ferrato sulle sette note, Evan è autore di ottime colonne sonore (Il piccolo diavolo di Benigni) e squisiti album solisti (su tutti, i magnifici tanghi di Pieces for bandoneon), oltre che membro dei già citati Lounge Lizards. 

Marc Ribot è il chitarrista degli album più belli di Tom Waits, minimalista fino all'osso - a mio modesto parere il migliore sulla piazza - il contrario di un Robert Fripp o di un Carlos Santana, del chitarrista tipo 7000 note in tre-minuti-tre, molti silenzi, poche cose ma tutte da urlo. 

Alla magia del mixer giochiamo in casa: sarà Carlo Rossi, torinese doc, a registrare il tutto.

L'album sarà diverso da quelli che l'hanno preceduto, più oscuro nei suoni e nelle situazioni; partirà da brani come Furore e Zampanò dell'ultimo Camera a sud. Il latino-americano questa volta latiterà per dare spazio a musica più popolare della nostra penisola, tarantolate, chitarre e tamburi, sapori blues ma scuri scuri, urbani e quasi neri. 

Il disco cercherà di tracciare un decalogo dei bassifondi, tratterà di luoghi che non sono immaginari: una Rimini a fine stagione, le piogge torrenziali sulla metropoli milanese (La pioggia di Novembre), Torino (Tanghi dei Murazzi), strade, molte strade, come quelle della Padania dove 

 

la notte se n'è andata / come una fucilata

 

Luoghi, ma anche personaggi che non faticheremo a riconoscere nei nostri più cari amici (L'accolita dei rancorosi). 

 

Insomma, passerà l'estate, le forze dell'ordine non chiederanno più i documenti a chi scende ai muri, farà più freddo, balleremo insieme il Ballo di San Vito. 

 

23 maggio 1996

Renato Striglia

Sulla pietra che rotola non si forma il muschio. Settembre 1996

Sulla pietra che rotola non si forma il muschio.

 

Chi ha il ballo di San Vito non può stare fermo e si muove per la penisola come un rabdomante senza tregua e senza requia e trova luoghi e assenze, desiderio d'altrove e fuoco immediato della strada e di Essere, sempre in ritardo per qualche cosa, afferra vorace e deraglia.

Sempre inseguito dalla magia, che si nasconde ovunque e a volte ci sorpassa addirittura. Non è una strada questa dove c'è spazio e sufficienza per perdersi. È strada affollata dove si fatica a trovare spazio per il parcheggio, assiepata di vapori e di volti e di cose afferrate nella loro bruciante pienezza, ardore d'amicizia, dove gli amici non sono quelli con cui ricordare, ma quelli con cui fare adesso, stanotte. Le strade sono statali fangose, lamieroni, capannoni luminosi, forni di musica e di luci e locali dove è meglio avere un body guard, dove la birra si ordina piccola che così non si scalda, tra compari dai nervi asciugati che russano come trattori.

 

Bisognerebbe disporre di ubiquità per potere dedicare una sola vita a qualcuno e non una decina quante ci vorrebbero, così le case, se ci sono, sono luoghi a cui non si torna, che tacciono negli addii, separazioni e cartoni.

Fuori, fuori è promiscuità e contatto, bagni pubblici e alberghi modello Gibbuti Inn e ristoranti anni '70 con infissi di alluminio, e ragazze di quartiere a cui non si può affidare il sogno e la confidenza. Come un corvo si gira, anzi ci si aggira nelle strade solcate di binari come panforte, sporche di cicche. La promiscuità è volgare ed è il prezzo che si paga aspettando la perla, ma per raccontarla la strada bisogna camminarla. E quanti sono disposti a farlo veramente?

Sì, è un disco sull'ubiquità e sui luoghi e io l'ho scritto e realizzato senza una casa, con molte case a disposizione. Molte anime inquiete conosco sparse nel paese, treni lividi di partenza. Tempo perso e tempo guadagnato.

Si dice che il pizzicato dalla tarantola possa trovare requie solo nel movimento continuo.

 

Prima di omologare il territorio il paese appare variegato, e soprattutto è questo paese guidando automobili come un ragno nella tela mentre la strada si apre e si rivolta come un uncino.

Dalla punta disseccata e rossa delle terre d'Otranto al fango giallo del Po sotto il ponte del Murazzo di Torino - periferie, inferni, accolite di rancorosi che sono loro a trovare te, non tu loro. Posti che non compaiono sulla cartina. La contrada Chiavicone, frequentata da gente che si chiama Disastro, Musso e Cavallaro che si trova da Benzina, titolare del distributore. Lì ho piazzato un vecchio piano Fender tra i trapani e le seghe circolari del costruttore di rottami stilizzati per interni Rastafaro. Ed ho cercato parole che possano crepitare in bocca.

Un disco finito è come un circo in cui il primo numero non può fare a meno dell'ultimo, né il pagliaccio può fare a meno dell'acrobata. La scommessa è grande ed è per questo che la perderemo.

 

Settembre 1996

Vinicio Capossela

«Non lasciatevi sfuggire nulla»

Quarto lavoro per Vinicio Capossela che si conferma con quest'opera uno dei più interessanti autori italiani. Dodici le canzoni che compongono questo album dal titolo Il ballo di San Vito. E già nella denominazione riecheggia l'inquietudine e la voglia di muoversi di chi è perennemente alla ricerca di un luogo. 
Dodici canzoni e frammenti che compongono un'opera in cui si avverte un'intima coesione di insieme nel concepimento, nella scelta e nella realizzazione dei brani. 
La forza poetica di Capossela dà voce a luoghi non immaginati, ma spesso a noi molto vicini e forse per questo più difficili da descrivere.

 

Il brano d'esordio, che dà il titolo all'album, ha un sapore italico-tribale che inebria per la sua forza ritmica, sanguigna, quasi punk, assolutamente slegata dai canoni usuali di canzone. 
Se gli americani conoscono la filosofia della pietra che rotola, noi italici - e nessuno lo aveva pensato prima - possiamo rispondere con la tarantola o con gli indemoniati, posseduti da una forza maligna che li fa muovere perennemente, come metafora dell'esistenza stessa.

Non solo, nelle canzoni di Vinicio ritroviamo anche luoghi dell'infanzia. Bellissima la visione con gli occhi di un adolescente di una festa paesana (Al veglione), arricchita, quasi come un film di Fellini o di Kusturica, di suoni, di sapori e di immagini femminili che rasentano il sogno. Per un attimo, per un breve attimo, la vita è rappresentata come una fotografia.

Ancora più lirica è l'immagine di Milano, ritratta in La pioggia di novembre, un brano che si avvicina al capolavoro. Se Al veglione è un film a colori, la Milano novembrina è un cortometraggio in bianco e nero, e pare di vedere la pioggia che cade lentamente sulla città, sui suoi abitanti e sui loro pensieri. E pare quasi di percepirne il profumo mentre la luce gialla dei lampioni cittadini, la luminosità spettrale dei tram, il selciato bagnato e riflettente entrano nel cuore, evocando così immagini che rimangono nella memoria. 

Il viaggio non termina qui: l'hinterland milanese, la provincia emiliana, l'intimità perduta delle Case, tutto è descritto con sentimento e passione, non deviando dall'autobiografia in stile cool nella trascinante Body guard.

 


Si passa per L'affondamento del Cinastic, sghembra costruzione pittorica, Il corvo, rag-time di quartiere, anzi, di "barrio", gli echi di Capo Verde della MornaLa notte se n'è andata, elettrico road-movie, il febbricitante scioglilingua di Contrada chiavicone, la marcia zoccolante de L'accolita dei rancorosi fino al Tanco del murazzo, brano conclusivo dai colori intensi e tragici. È un finale livido e allucinato, mentre scorrono ipotetici titoli di coda.

Al solito, Vinicio ama disorientare l'ascoltatore: se alcuni brani sembrano finemente ironici, altri sono ricchi di drammaticità. Ma anche nei bozzetti allegri, come spesso accade ai grandi scrittori, un retrogusto amaro rimane nelle immagini evocate.

Una particolarità che amo ricercare nelle canzoni di Capossela è la scelta accurata dei vocaboli usati, terminologie che spaziano dal gergo giovanilista, allo slang anni '50 (il lamierone), caro agli scrittori Hard boiled dai termini ricchi di fascino (il Gibbuti Inn). L'amore, insomma, per la parola, per il suono della parola, che non solo definisce un oggetto o una persona, ma ne caratterizza l'ambiente, l'epoca, la personalità. 

 

 

Vinicio per la prima volta "firma" la produzione artistica di un suo album e fa convergere nel Ballo una pluralità di personalità di diverse estrazioni. In sala di incisione ritroviamo grandi musicisti quali lo spigoloso chitarrista Marc Ribot, il pianista Evan Lurie, anch'egli attratto dai tanghi argentini e dai ritmi mediterranei, il contrabbasstista Ares Tavolazzi, un bravissimo Luciano Titi agli strumenti a mantice, oltre ai noti compagni di strada Enrico Lazzarini, Ellade Bandini e Giancarlo Bianchetti. Incisivo l'apporto dei fiati: ottoni, claroni, ance sono usati in maniera ora essenziale, ora di forsennata sarabanda.
Infine, tra gli ospiti fanno capolino, e non è un caso, alcuni musicisti della nuova scena italiana come i La Crus, Cato Senatore e Davide Graziano degli Africa Unite e Carlo Rossi al mixer, già produttore dei Mao Mao.

Si viaggia in piedi tra suoni e rumori, fiati in corsa, vetture balcaniche, cristalli in frantumi, chitarre viola, scenografie urbane, anitre mute. Tra aree di ispirazione diverse, fortemente metabolizzate dall'autore. 
 

Il ballo di San Vito è un'opera che restituisce magia, che ammala e contamina, e testimonia la maturità musicale e poetica di un artista che ha saputo negli anni, con solo tre album alle spalle, creare un suono particolare, inconfondibile, un linguaggio che lo pone tra i più preparati e originali del panorama italiano.

 

 Guido Giazzi

Cenni biografici. Ottobre 1996

Vinicio Capossela è nato ad Hannover, in Germania, il 14 dicembre 1965. Matura le prime esperienze artistiche in Emilia, esperienze che lo portano, attraverso peregrinazioni, locali, apprendimenti e licenziamenti, a calpestare una strada che lentamente scorre (per citare il suo primo mentore)

 

Tra la via Emilia e il jazz.

 

Nel 1990 arriva il disco d'esordio e il primo riconoscimento ufficiale. All'una e trentacinque circa gli vale la Targa Tenco per la Migliore Opera Prima. 
Questo lavoro, disco notturno di ballate malinconiche e slanci rabbiosi di euforia, si può definire la carta d'identità artistica di Vinicio. È qui che i sogni cominciano ad attecchire, anche selvaggi; è qui che inizia quella ricerca della chiave per aprire e chiudere il mantice a tempo. 
In buona sostanza, è qui che l'autore si rende conto che

 

la vita è troppo triste per divertirsi di continuo e troppo intensa per non divertirsi affatto,

 

consapevolezza ancor più definita dal suo secondo lavoro, Modì (1991). 

Il mondo, se così si può dire, di Vinicio prende forma attraverso tratteggiamenti, caratterizzazioni e soprattutto cronache; ecco il musicista-scrittore, il cronista delle mancanze, cronache di "morti annunciate", cronache di "poveri amanti", cronache di chi preferisce osservare che essere osservato, ma senza contemplazione, piuttosto partecipazione. Partecipazione che c'è, con policroma ironia, anche nel terzo lavoro Camera a sud.

 

Osservare però, per quanto partecipi, non basta. Non è più tempo di sfiorare, di carezzare, è tempo di graffi, di parole d'altrove ed è soprattutto dal vivo che questa consapevolezza prende piede. 
I suoi spettacoli sono caratterizzati da una sempre più crescente partecipazione emotiva, da una grande capacità di improvvisazione, da toni confidenziali, da ammiccamenti e complicità con il pubblico.

 

Amici no, tuttalpiù conoscenti

 

È il suo esordio preferito ed emblematico. Il suo terzo disco viene pubblicato anche in Francia. Il suo concerto al teatro de la Ville (1995) registra il tutto esaurito.

Dopo apparizioni cinematografiche (Non chiamarmi Omar di Staino), una felice collaborazione teatrale con Paolo Rossi (Pop e Rebelot, Milanin Milanon), le musiche de Il circo, la partecipazione al disco di canzoni di Vladimir Vytsosky, le versioni in italiano dei tanghi di Anibal Troilo, dopo un periodo di curioso deambulare arriva ora questo quarto lavoro, Il ballo di San Vito, per un personaggio che ha sempre voluto poco apparire e ha fatto dei taccuini e delle scene di club e teatri il suo luogo d'espressione preferito. 

Non resta che aspettare dunque. Ma aspettare cosa?

 

Aspettare primavera... Bandini. 

 

Vincenzo Costantino "Cinaski"

Ottobre 1996

Per leggere di più

Cliccate qui per leggere alcuni interessanti stralci di interviste rilasciate da Capossela nel 1996. Le interviste possono essere sia lette, sia scaricate in formato Word.